martedì 28 aprile 2009

THE BALKY MULE - The Length Of The Rail



10/4/2009
Rootshighway

VOTO: 6


A Bristol Sam Jones è divenuto un musicista di culto, uno di quei personaggi che in vent'anni di carriera ha dato vita ad una miriade di band del mondo indie-pop inglese, continuando a saltare di progetto in progetto con la frenesia tipica delle menti sempre in movimento. Il soft-core ante-litteram dei Movietone, le escursioni noise dei Flying Saucer Attack, l'alt-pop dei Crescent o le collaborazioni frequenti con i paladini dell'elettronica pop Minotaur Shock e con i Third Eye Foundation: questo è il suo background, noto ai cultori di una scena che negli anni '90 ha detto molto in termini di avanguardia in Inghilterra. Abbandonata Bristol all'inizio di questo decennio, Jones ora vive e suona a Melbourne, in Australia, con lo pseudonimo The Balky Mule, ennesimo vezzo di nome d'arte buono per una band usato però da una singola persona.

The Length Of The Rail è il suo primo album, frutto di anni di registrazioni, prove, esperimenti e azzardi musicali, riordinati in un'opera organica e a suo modo affascinante. Che non sia materiale recente si sente eccome, i 15 piccoli brani che compongono l'album, registrati tra il 2001 e il 2006, rappresentano una sorta di riassunto di dieci anni di evoluzione del folk indipendente, e non solo inglese. Ci si potrebbe ritrovare la malinconia di Bonnie "Prince" Billy, la delicatezza del folk ammantato di percussioni dell'Iron&Wine recente, perfino le spigolature vocali dell'ultimo Vic Chesnutt, ma la lista dei possibili riferimenti potrebbe essere lunga e sempre discutibile. Il tutto è poi condito da un continuo gioco fra chitarre acustiche mai troppo accomodanti e le mille possibilità offerte da una tastiera, con i suoi battiti in loop, i suoi bassi innaturali, i suoi rumori d'ambiente. The Length Of The Rail arriva inevitabilmente tardi, non rivoluziona, semmai conferma che la nuova "musica da camera" (nel senso letterale dell'espressione, vale a dire registrata nella propria camera da letto) è ormai una forma d'arte matura, se supportata da un vero talento e da belle canzoni come Jisaboke, Range o il dolce finale di Tell Me Something Sweet.

Ma contemporaneamente sottolinea anche come l'arte del self-made artist trova nella autoreferenzialità di episodi come Blinking o Instead un limite ancora troppo grosso per lasciare segni tangibili nel tempo. Manca dunque il passo in più, l'evoluzione che giustifichi strumentali rumoristici dove perfino il Tom Waits più creativamente pigro riesce meglio. Nella presentazione del suo myspace si afferma che il suo stile è riconducibile ad un Syd Barrett con la voce di Ray Davies dei Kinks: sicuramente se l'ex Pink Floyd avesse avuto accesso alla tecnologia di oggi, il suo The Madcap Laughs avrebbe suonato molto simile a questo album, ma ovviamente lo spessore delle canzoni è ben diverso. The Length Of The Rail è un disco nato dunque per stuzzicare l'appetito del curioso, ma non sempre ben ripaga tanta dedizione.
(Nicola Gervasini)

sabato 25 aprile 2009

YARN - Empty Pockets


4/4/2009
Rootshighway

VOTO: 6,5

Ascolti gli Yarn e cominci già ad immaginarti qualche musicista attempato, magari intento a registrare con amici alcune canzoni nate sulla veranda di casa nelle calde notti di estate. Volenti o nolenti ogni musica crea il suo immaginario stereotipato, per cui grande sorpresa quando si scopre che una delle band più acclamate dai siti di country e bluegrass americani è stata sputata fuori dai fumosi locali di Brooklyn. Nel 2007 il loro omonimo album d'esordio si era piazzato al quattordicesimo posto nella Americana Music Association's Top 40 chart, e questo secondo sforzo, intitolato Empty Pockets, ha già ricevuto qualche importante attenzione di settore. Blake Christiana e Trevor MacArthur (voce e chitarra), Andrew Hendryx (Mandolino), Rick Bugel (Basso) e Jay Frederick (batteria) animano da ormai cinque anni un combo dedito al concetto più stretto e rigido di "americana", un bluegrass di vecchia fattura che può anche avvicinarsi a quanto prodotto in questi anni dagli Old Crow Medecine Show, unito però ad una vena alt-country ante-litteram.

La cosa è evidente nei testi, spesso intimi e uggiosi, a dispetto del clima gioioso di queste quindici canzoni, Eppure anche nelle liriche la tradizione viene alla fine comunque rispettata, se è vero che le pene d'amore cantate nella title-track finiscono inesorabilmente ad annegare in qualche bar di New York. Vita da artista quella raccontata dagli Yarn, tra locali zozzi, concerti avventurosi e storie da strada, come la Can't Slow Down che apre le danze, una storia vista con l'ottica dell'ubriaco al volante che potrebbe tranquillamente essere usata per una campagna contro l'assunzione d'alcool da parte degli automobilisti. Tutto Empty Pockets scivola piacevolmente nello stereo senza troppi intoppi, la band non ama i colpi di testa stilistici, e preferisce viaggiare sempre sul sicuro. Questo finirà però per rappresentare il loro grosso limite, considerando che il cd è lungo e con evidentemente qualche brano di troppo. Bazzicando i locali della Grande Mela i ragazzi si sono anche assicurati l'intervento vocale di Edie Brickell nella deliziosa I'm Down, mentre l'ex Whiskeytown (e successivamente nelle Tres Chicas) Caitlin Cary anima le danze di 5 Guitars, collaborazioni prestigiose che però non aggiungono molto al menu.

Autoprodotto e interamente scritto dal funambolico Blake Christiana (al quale però manca il "magic touch" sia come vocalist che come autore), Empty Pockets è un passatempo consigliato solo agli amanti del bluegrass, o magari a chi sta decidendo di dedicarsi alla nobile arte del mandolino, visto che quello di Andrew Hendryx sembra avere molto da insegnare in materia e rappresenta uno degli elementi più notevoli del cd. Brani come Christopher Street, Roadhouse o l'accorata You Don't Love Me Anymore possono tranquillamente finire nelle vostre playlist senza nulla togliere al vostro prezioso tempo di attenti ascoltatori.
(Nicola Gervasini)



mercoledì 22 aprile 2009

AMY SPEACE - The Killer In Me


13/03/2009
Rootshighway


VOTO: 8
Perché Amy Speace dovrebbe avere qualcosa in più delle altre? Produce un country imbastardito con chitarre rock, come già Lucinda Williams e Steve Earle prima ancora di lei. Ha una bella voce, sempre abbastanza roots-oriented, ma non particolarmente riconoscibile tra le tante. E con Lucinda condivide anche una lunghissima gavetta (ma lei nella vita ha fatto tutt'altro che la cantante) e un certo piglio da maschiaccio che le fa preferire i giubbetti di pelle ai vestitini con i merletti. Eppure se già il suo esordio per la Wildflower di Judy Collins (Songs for Bright Street) aveva convinto, questo The Killer In Me (in verità il quarto album della sua carriera) evidenzia una ulteriore maturazione del songwriting, che la conferma come una delle realtà più vive del momento. Rispetto al predecessore, la Speace non ha cambiato squadra: ad accompagnarla ci sono sempre i Tearjerks con la chitarra impastata di polvere rock di James Mastro, un passato nei Bongos negli anni 80 (una band di rock sotterraneo in stile Feelies) e quattro anni fa chitarrista dell'Ozzy Osbourne post-sit-com di MTV. Mastro qui appare anche in veste anche di produttore, e siccome due anni fa ha fatto faville con la sua sei corde nell'album Shrunken Heads di Ian Hunter (contribuendo al suono molto americano di quel disco), ha coinvolto il vecchio leone del glam-rock inglese anche in questa avventura, dove la voce di Ian fa da contraltare a quella di Amy in più di un brano. The Killer In Me appare un album riuscito fin dai primi ascolti, contiene brani molto semplici e orecchiabili come Better, This Love o Something More Than Rain, che potrebbero anche indurvi a lasciare il disco nella vostra cartella "ascolti distratti", ma basta passare dalle parti di Blue Horizon, splendida desertica marcia funebre che sa molto più di Austin che della sua New York, per capire che qui le cose girano per il verso giusto. Amy Speace e il suo team sono bravi a intuire quando è il caso di lasciar parlare la canzone senza troppo aggiungere (l'iniziale Dog Days ad esempio, ma anche la riflessiva Haven't Learned A Thing), oppure infarcire un brano di per sé già teso come Storm Warning con suoni e rumori sinistri. Ne esce un disco vario, che utilizza risaputi mid-tempo da Nashville all'ora della pennichella come quello della title-track, ma li colora con bei testi che scavano nel profondo delle sue relazioni amorose. Il meglio del disco arriva nel finale, con la travolgente cavalcata di Would I Lie, gli isterici cambi di ritmo e tono di Dirty Little Secret (probabilmente il capolavoro del disco), la ritmata border-song di I Met My Love, e l'emozionante lungo finale di Piece By Piece. Proprio quando scrosciano gli applausi, c'è tempo per il bis della bonus-tracks, la folk-song di protesta Weight Of The World, che la padrona di casa Judy Collins ha già battezzato "la migliore canzone anti-guerra che io abbia mai sentito". Sarà pure marketing spiccio, ma detto da una che ne ha interpretate mille, qualche cosa significherà pure. (Nicola Gervasini)

martedì 21 aprile 2009

AMOS LEE - Live from Austin, Tx



30/3/2009
Rootshighway


VOTO: 6,5


Personaggio timido e sfuggente, Amos Lee è indubbiamente un bel ragazzo, ma non è mai stato dotato di una fisicità che buca lo schermo. Il cantautore di Philadelphia è uno dei nuovi paladini della soft-music americana, il nuovo James Taylor secondo alcuni, per quella sua attitudine ad unire country, folk e Philly-sound nero che gli è valso buone vendite dei suoi tre dischi licenziati per la Blue Note, e l'onorevole battesimo sul palco come spalla di Bob Dylan e Elvis Costello. La serie Live From Austin TX lo coglie il 10 agosto del 2005, quindi proprio all'indomani del primo album, in un set tutto classe e gusto morigerato che fa di lui il possibile alter-ego musicale di Norah Jones. Brani come Dreamin' o la bluesata Love In The Lies esaltano la sua vocalità tenue ma molto nera nell'anima, ben coadiuvato dalla buona band formata da Fred Berman alla batteria, Jaron Olevsky al basso e il bravo e discreto Nate Skiles. Membro aggiunto per l'occasione il vecchio Red Young con il suo Hammond, uno che suona da sempre blue-eyed soul con Eric Burdon. Il difetto del dvd non sta tanto nella proposta musicale, sebbene metta in evidenza una certa ripetitività della musica di Lee, quanto nel fatto che la visione del concerto offre immagini statiche e nessuna concessione allo spettacolo da parte dei musicisti, sempre troppo disciplinati e formali, e dello stesso impagliatissimo Amos Lee. Come dire che il dvd si ascolta volentieri, ma si fa vedere distrattamente, con ampi spazi lasciati alla possibilità di andare a prendersi una birra senza paura di essersi persi qualcosa. E nessun regalo al pubblico arriva neanche dalla scaletta, composta solo da brani autografi, quando forse il fatto che Amos Lee si faccia apprezzare decisamente più come interprete che come autore, avrebbe dato un po' di pepe in più con qualche interessante cover. Difficile intuire a chi possa servire un simile prodotto, che tra l'altro copre interamente il suo primo album in studio, se non ovviamente ai fans già accaniti e acquisiti in questi cinque anni. In ogni caso, se non proprio il vostro schermo, le vostre casse ringrazieranno per queste note elegantemente misurate.
(Nicola Gervasini)

sabato 18 aprile 2009

MIRANDA LEE RICHARDS - Light Of X

Aprile 2009
Buscadero

VOTO: 7



Non si può non innamorarsi di un personaggio come Miranda Lee Richards. E’ indubbiamente bella, di una bellezza eterea e intoccabile, è dotata di una splendida soave voce che ricorda molto quella di Hope Sandoval dei Mazzy Star (da lei stessa spesso citati) o ancora di più di Karen Peris degli Innocence Mission, ed è pure figlia di tutta una scena di ex hippie incalliti di San Francisco, prima ancora che di due famosi disegnatori di comic books allievi di Robert Crumb. Il mistero che regna dietro l’impenetrabile sguardo della ragazza è alimentato dalla sua storia, che la vide esordire nel 2001 con un album (Herethereafter) che era piaciuto a tutti per quella voglia della New York alternativa dei Velvet Underground, le aperte tentazioni per la scena alternativa indipendente, e un amore per la canzone femminile classica alla Laura Nyro. E ovviamente non dimentichiamo le sue relazioni amorose, quelle che piacciono ai gossippari rock, la più nota delle quali resta quella con il Metallica Kirk Hammett, oppure le notizie che la vedono abitare per qualche tempo in una tenda come i veri hippie di una volta, e tante altre belle cose che alimentano le biografie. Otto lunghi anni sono passati prima di poter ascoltare questo Light Of X, secondo disco arrivato quando della ragazza ci si era anche un po’ dimenticati, otto anni in cui Miranda ha maturato maggior gusto per la melodia e ha perso un po’ per strada la voglia di cultura underground che permeava il suo primo disco. E allora ecco un disco tenue, soffice, permeato dalle sue tastiere (piano, organo, sintetizzatori) e dalla sua voce gentile, con canzoni semplici e confezionate con lo stesso gusto folk-pop della Edie Brickell che fu, come Breathless o l’ottima Early November, melodia di quelle che ti si stampano nella calotta cranica al primo ascolto. E allora via ad una serie di testi sofferti ma con freddo distacco, pieni di quella poca voglia di raccontare storie e grande necessità di esprimere emozioni del più classico songwriting femminile alla Joni Mitchell (Pictures Of You, Mirror At The End), e via a canzoni azzeccate per suoni e melodia (Savorin’ Your Smile tra le migliori del lotto) e alcuni momenti fin troppo sognanti e impalpabili (Lifeboat ad esempio, o una That Baby che abusa di archi e facili pianti per i bambini in guerra). Anche se la maturità l’ha trasformata in una saggia chanteuse per cuori feriti dagli anni, la Richards che frequentava il jet set culturale di Frisco esiste ancora, la si sente nella tesa e oscura Here By The Window, con le sue belle elettriche anni 70, nei simbolismi letterari di Olive Tree, o anche nella ghost-track (che qui coincide anche con la title-track), un recital alla Patti Smith ammantato con un organo da bassifondi, che chiude in maniera del tutto fuori tema (ma forse per questo ancor più affascinante) il disco. Probabilmente la sua voce non le permette di alzare troppo i toni e trovare troppe variazioni stilistiche, e questo rende Light Of X leggermente piatto e forse fin troppo prolisso (si sfiora l’ora di durata), ma quando nel finale duetta solo con il suo piano e gli archi come nella splendida Last Days Of Summer non ci si pente di qualche sbadiglio dimenticato sul percorso. Produce bene e senza troppi colpi di testa Rick Parker, meno geniale del Jon Brion (Rufus Wainwright , Aimee Mann) che animò il primo disco, ma decisamente più misurato ed essenziale. Difficile che vi faccia perdere completamente la testa, ma Light Of X sarà comunque in grado di rapire i vostri sensi quel che basta per renderlo indispensabile. (Nicola Gervasini)


venerdì 17 aprile 2009

JOHNNY DUK & Acoustic Sessions Band - The River Of Dreams



3/4/2009
Rootshighway

VOTO: 7

Se decidete di farvi un giro per l'Europa, non fate l'errore di transitare velocemente e distrattamente per il Canton Ticino. Oltre ad essere la Svizzera terra sorprendente in tema di spettacoli naturali, i nostri vicini di casa sono da sempre anche bacino di larga utenza di suoni e cultura americani. Fabio Ducoli, in arte Johnny Duk, viene da Faido, ha una passione non nascosta per Bruce Springsteen e tanta voglia di provare a dire la sua nel genere dopo una lunga gavetta che l'ha portato in gioventù a bazzicare anche gli ambienti sanremesi della musica leggera italiana. The River Of Dreams nasce da anni di comune passione per i suoni rurali d'oltreoceano con la violinista Claudia Klinzing, ed è composto da dodici brani che mischiano country, folk, e suoni irlandesi, con una certa somiglianza alla proposta musicale del nostrano Davide Van De Sfroos, o se preferite, allo Springsteen zona Seeger-sessions, richiamato anche nel nome della band che lo accompagna. Ci si diverte parecchio con episodi da bar come Serenade e il traditional Will You Miss Me? (When I'm Gone), ci si emoziona molto con due belle ballate folk come Desolation Land e la stessa The River Of Dreams, per le quali Duk si guadagna anche i complimenti per scrittura e interpretazione. Ci si lascia scappare un sorriso per lo strano tentativo di portare la mitica hit anni 90 dei Fastball The Way nelle desertiche atmosfere del Texas, ci si diletta anche per il suono del suo dobro e per il violino della Klinzing negli strumentali Dusty Valley e Laddy's Tune. Insomma, al di là della pronuncia inglese di Johnny che a volte tradisce un po' le origini non proprio da yankee DOC, deliziose e semplici roots-songs come My Last Wish e Something's Burning sono testimonianza di una piena maturità e capacità di maneggiare l'argomento rock. Consigliati anche come set dal vivo. Birra compresa. (Nicola Gervasini)

sabato 11 aprile 2009

EEF BARZELAY - Lose Big




Buscadero
Aprile 2009


VOTO: 7,5
Israeliano trapiantato a Boston e cresciuto nel New Jersey, Eef Barzelay rappresenta da ormai dieci anni un irrisolto mistero della scena indipendente americana. Leader (e spesso dispotico one-man-band) dei Clem Snide, il geniale artista sta conducendo la propria carriera in maniera piuttosto disordinata, all’indomani dell’accoppiata di dischi della band (il consigliabile a gran voce The Ghost Of Fashion del 2001 e The Soft Spot del 2003) che ne hanno decretato il plauso della critica. Poi, dopo un disco piacevole ma indeciso sul da farsi come End Of Love e i mille cambi di formazione, sono arrivati i tira e molla sul fatto che la band fosse ancora un’entità reale o si potesse definitivamente ritenere sciolta. Anche perché da allora Barzelay sta pubblicando a suo nome, prima con l’acustico e involuto Bitter Honey del 2006, e ora con questo ben più strutturato Lose Big. Un disco che aumenta la confusione in merito alla sua carriera, registrato nel 2006 in contemporanea all’annuncio dello scioglimento della band, uscito con distribuzione autoctona negli Stati Uniti nell’aprile 2008, ma pubblicato in Europa con tutti i crismi del caso solo nel 2009, proprio quando Barzelay ha già annunciato per quest’anno un ritorno discografico dei Clem Snide. E ci verrebbe da dire che forse non era il caso di annunciarlo, visto che già questo sorprendente Lose Big potrebbe essere considerato l’ideale prosecuzione del percorso della band, e il fatto che questa nuova versione per il nostro mercato contenga due bonus-track derivanti dalle vecchie sessions con i Clem Snide, non fa che aumentare la confusione tra i teorici progetti solisti e il percorso maestro. E tra l’altro le due bonus non appaiono un contentino da poco: Me No è un avanzo del registrato ma mai uscito sesto disco dei Clem Snide intitolato Hungry Bird, in sostanza registrato dal solo Barzelay con l’ausilio della batteria di Ben Martin, ed è uno stupendo pop crepuscolare alla Robyn Hitchcock che davvero spiaceva perdersi, così come piace anche l’ariosa melodia di I Love The Unknown, addirittura uscita dalle session di Your Favorite Music, secondo disco del 1999. Due brani che aggiungono valore ad un disco che già aveva strappato più di un applauso per eclettismo, eccentricità concludente, e capacità di maneggiare idiomi rock disparati con gran maestria. Could Be Worse attacca con un bel riff da power-pop, mentre piace tantissimo la quasi brit-pop The Girls Don’t Care, forse fin troppo echeggiante la Creep dei Radiohead che furono, ma brano che tocca corde dolorose con il ritratto di un uomo con grandi difficoltà nel parlare con le ragazze poco interessate a temi di per lui fondamentali (come si fa a comunicare con qualcuno che non ascolta Frank Zappa, i Faust, i Can e Coltrane, si chiede il disperato e solitario Barzelay?). Solitudine anche nella delicata nenia acustica di Take Me, mentre How Dare They si lancia in un tango distorto e allucinato che strizza l’occhio ai Los Lobos più sperimentali. Davvero strabiliante Apocalyptic Friend, lettera aperta ad un pessimista cronico, brano evocativo che rappresenta il centerpiece del cd. “Uno più uno fa tre”: basterebbe il primo verso di Numerology a far capire il mondo di Barzelay, illogico e mai scontato, come quello degli Eels ad esempio, che brani come Make Another Tree o Song For Batya indicano come il riferimento più evidente per descrivere il suo stile. La seconda parte del cd non tiene forse il gran livello della prima, sebbene convinca anche in veste da puro folk-singer (True Freedom), e anche se l’ottima cavalcata elettrica di Lose Big resta uno dei brani più interessanti del disco. Registrato a Nashville sotto l’ala del bassista e tastierista Jared Reynolds, Lose Big potrebbe essere la giusta ripartenza di una mente creativa determinante di questo nostro caotico decennio musicale.
(Nicola Gervasini)

venerdì 10 aprile 2009

DEAN OWENS - Whiskey Hearts


30/03/2009
Rootshighway

VOTO: 6


Razza tosta quella scozzese, sempre pronta a difendere a spada tratta qualsiasi cosa abbia l'odore del whiskey di casa. Nelle note di copertina di Whiskey Hearts un'entusiasta Irvine Welsh scrive che si può anche passare tutto il giorno pescando qui dentro influenze folk, rock&roll, blues, country e punk, ma gli piace pensare a Dean Owens come ad un semplice "soul boy". Sarà che da italiani non possiamo partecipare a tanto compiaciuto cameratismo scozzese, ma a noi più che altro Owens ha fatto pensare ad un'artista che rimbalza da un'influenza all'altra come una pallina da biliardo, senza mai esibire nulla di veramente proprio. Ma se Welsh, scrittore diventato mito dopo il successo di Trainspotting, ha scelto lui per commentare un suo recente film per la tv (Good Arrows), una qualche ragione ci sarà.

Owens ci spiega il senso del disco in un video di quindici minuti incluso nel cd, una piccola intervista che lo vede scorazzare per gli Stati Uniti, raccontando il mito dell'America con cappello da cowboy dal parco del Joshua Tree, felice di aver registrato il disco nel Tennessee con musicisti che sono mito per lui come per noi. Il suo intento era di realizzare un bell'excursus sugli stili yankee a lui più familiari, e sotto questo aspetto queste dieci tracce dimostrano che il ragazzo ha studiato bene i fondamentali del mestiere. Owens gioca con gli stili, passa attraverso grossolani sax springsteeniani (Years Ago), energici jingle-jangle rock (Hallelujah) o affettati cool-pop alla Style Council come Beth On The Trampoline. Oppure semplicemente si avvia nel roots-rock più ovvio e mainstream di Just Another Sunday o nella zoppicante apertura di Sand In My Shoes, fino ad arrivare a pop rurali senza spina dorsale come Adrift e Miss You Ca. Whiskey Hearts, è un prodotto nato nella polvere e impreziosito dalla chitarra spinosa di Will Kimbrough, credenziali perfette per un disco perlomeno interessante, ma il risultato appare essere troppo perfetto, troppo elegante e ricercato per essere anche verosimile.

Il problema non sono tanto le canzoni, in sé per sé nella media del genere, quanto nella sua vocalità stanca e spersonalizzante, e nella sua tendenza a infiocchettare il tutto con suoni leggeri e carezzevoli, tanto che anche una buona ballata come Raining In Glasgow finisce per sembrare la colonna sonora di una commediola americana di cassetta a causa di quel suo plin-plin di pianoforte così ovvio e invadente. Contenti comunque di condividere con lui miti e suoni, soddisfatti anche quando Owens lascia un po' da parte l'America e fa il folksinger di marca celtica, finendo per offrire in questa veste i due episodi migliori del disco (Man From The Leith e la stessa Whiskey Hearts che chiude bene il cd). Il viaggio è sempre bello, il bigino di storia della musica americana è completo, ma della personalità dell'artista si ravvisano ancora troppi pochi segni. Un difetto non da poco in un mondo pieno di validi e capaci scolaretti del rock.
(Nicola Gervasini)

martedì 7 aprile 2009

BUDDY & JULIE MILLER - Written in Chalk


02/03/2009
Rootshighway



VOTO: 8



Come si fa a giudicare serenamente Buddy Miller dopo che è appena stato nominato "Artista del decennio" dalla rinsavita rivista No Depression? E soprattutto, come si fa a giudicare senza condizionamenti Written In Chalk, il suo secondo disco licenziato in coppia con la moglie Julie, appena dieci giorni dopo che lui ha rischiato di lasciarci le penne sul palco? E che palco! Buddy è stato colpito da infarto il 19 febbraio scorso a Baltimore, mentre era coinvolto in relazione extra-coniugale con ben tre donne, vale a dire Emmylou Harris, Shawn Colvin e Patty Griffin, (il "3 Girls with Buddy" tour, spettacolo che qui in Italia possiamo solo sognarci). Nulla di morboso in verità, Buddy stava solo facendo per loro quello che fa ormai da più di vent'anni con la sua chitarra: la colonna, la trave portante delle migliori performances di Steve Earle o Lucinda Williams, per non parlare del trionfale tour fatto a seguito del pluridecorato duo Robert Plant - Allison Krauss lo scorso anno. Per la cronaca Miller si è salvato, gli hanno messo tre bei by-pass, e a 56 anni suonati potrebbe anche voler dire che forse dovrà rinunciare a offrire i suoi servigi di grande chitarrista a qualche donna in meno in futuro.Per cui pur cercando di non scadere nell'agiografia che il personaggio comunque meriterebbe, diciamo subito che questo Written in Chalk è ancora una volta un prodotto superiore alla media. Non è un "suo" disco, neppure un disco di un duo, ma è il prodotto di una famiglia di grandi musicisti, la summa di tutta una scena di quella Nashville progressista e illuminata che in Italia è particolarmente poco apprezzata e seguita. Una bella armonia di gruppo dove persino una primadonna come Robert Plant duetta in What You Gonna Do Leroy di Mel Tillis con una modestia e una compostezza che ne evidenzia la paura di rovinare un così perfetto equilibrio. Le chitarre di Buddy qui suonano persino strabilianti per profondità del suono in alcuni momenti (One Part, Two Part), e ormai anche come vocalist ha l'esperienza adatta per toccare sempre le corde adatte (Hush, Sorrow e la stessa Chalk), ma è di Julie Miller che avremmo dovuto parlare. E' lei infatti che scrive un lotto di brani da applausi, per intensità dei testi e perizia melodica (ascoltate June e Everytime We Say Goodbye), è lei poi che li interpreta con una classe e maturità che le permettono di sfidare anche un episodio jazzy come A Long, Long Time senza scadere nel calligrafico. E' in grande forma Julie, decisamente pronta a riprovare a camminare anche con le proprie gambe, le stesse che anni fa ci diedero album deliziosi come Blue Pony, e così perfino i cameo di Patty Griffin (nella dolcissima Don't Say Goodbye) e di Emmylou Harris (The Selfishness Of Man) finiscono solo per essere credits superflui. Avremmo forse dovuto rilevare che Written in Chalk non è un apice, ma un approdo, l'album che cementa un percorso che forse aveva già trovato nello splendido Universal United House of Prayer del solo Buddy la sua piena apoteosi, e notare magari che ormai la sicumera di questi attempati signori nell'offrire il loro country-rock degli anni 2000 rasenta quasi la pura accademia, soprattutto nei divertenti ma di base risaputi episodi più bluesy e sudisti come Memphis Jane, Ellis County o la divertente Gasoline And Matches. Ma per approfondire e notare le pecche avremo sicuramente un'occasione più adatta. (Nicola Gervasini)

venerdì 3 aprile 2009

CHRIS ISAAK - Mr. Lucky


20/03/2009
Rootshighway

VOTO: 7,5



Amare Chris Isaak vuol dire essere estremi, persino violenti, nel proprio amore per la tradizione musicale americana. Eccessivamente melodico, stucchevolmente romantico, inesorabilmente prevedibile e stancamente ripetitivo: dare un giudizio globale sulla sua opera è compito che è meglio lasciare a chi ha deciso di accettarlo in toto, senza condizioni, altrimenti i suoi dischi sono apparsi sempre troppo attaccabili e criticabili, innegabilmente leggeri. Isaak non è un genio e non è nemmeno un autore fondamentale nell'economia della storia del songwriting americano. Ma è da sempre il primo della classe del corso di laurea intitolato al Professor Roy Orbison, e il nuovo alunno Springsteen, uno che ha iniziato a frequentare veramente solo quest'anno a trentacinque anni dalla sua domanda d'ammissione, si metta pure in coda e lavori ancora di più al suo sogno per raggiungere i livelli di radicale melassa di cui è capace questo secchione del melodramma machista.

Era caduto nel dimenticatoio Isaak, Speak Of The Devil (1998) e Always Got Tonight (2002) erano troppo poco invitanti e riconoscibili perché potessero bissare i vecchi considerevoli successi (Wicked Game la si usa anche come suoneria dei cellulari, il sedere di Nicole Kidman è indissolubilmente legato a Baby Did A Bad Bad Thing dai tempi di Eyes Wide Shut). Ora arriva dopo 7 anni questo Mr Lucky, nella piena indifferenza generale qui dalle nostre parti, un po' meno negli Stati Uniti, dove da tempo lui è anche una star televisiva e sta presentando il disco nel suo The Chris Isaak Hour. Nessuna sorpresa in questo caso: Isaak continua ad essere Isaak, se non vi piaceva prima, non vi piacerà neanche adesso, ma per chi ancora ha il cuore debole (e ci mettiamo baldanzosamente nella categoria) queste 14 canzoni suonano perfette, pur nella loro disarmante semplicità. I puristi potrebbero inorridire: qui se c'è da mettere una tastiera furba, Chris ce la mette (lo splendido mainstream di We Let Her Down si adagia non poco su tappeti sintetizzati), se c'è da esagerare con i cori per sottolineare le melodie, lui non si tira indietro (Baby Baby, Summer Holiday), se c'è da prodigarsi in un duetto con Trisha Yearwood come Breaking Apart, ballatona da film d'amore di serie C, o nella ugualmente sdolcinata Lose My Heart con Michelle Branch, lui ci sguazza beato.

Ma i suoni sono caldi, le chitarre si fanno sentire (passano nelle mani di Greg Leisz e Waddy Wachtel tra gli altri) e non c'è un solo brano che non risulti più che accattivante, persino quando si cade su esercizi di stile come We've Got Tomorrow, la swingata Take My Heart o il gran finale con big band di fiati di Big Wide Wonderful World. Cheater's Town ha un crescendo da brividi, You Don't Cry Like I Do è una delle sue più belle romanze, Mr Lonely Man è un episodio insolitamente cattivo ed energico per le sue corde, Best I Ever Had non te la togli più di dosso, Very Pretty Girl è depravata quanto basta. E Mr. Lucky è uno dischi più freschi e convincenti della sua carriera.
(Nicola Gervasini)

mercoledì 1 aprile 2009

THE RESENTMENTS - Roselight


09/03/2008
Rootshighway
VOTO: 6,5



Come spesso succede, sono proprio le cose nate per caso e per necessità estemporanee a rivelarsi le più durature. I Resentments sono una superband delle migliori menti della roots-music di Austin, un gruppo nato per essere l'attrazione una tantum di un locale della città, e giunti invece con questo Roselight a pubblicare già il quinto album. Il deus ex machina di questo campionario dei migliori musicisti del Texas è Stephen Bruton, chitarrista e produttore di cui non termineremo mai di tessere le lodi, l'uomo che ha ad esempio lanciato la carriera solista di Alejandro Escovedo, che qui ringrazia e contraccambia fornendo alla causa un suo brano inedito (la stessa Roselight), che manco a farlo apposta rappresenta l'highlight compositivo dell'album (nonostante la prova vocale di Stephen non sia alla stessa altezza). Secondo co-protagonista assoluto della band è l'ex Loose Diamonds Scrappy Jud Newcomb, chitarrista visto anche al servizio di altri artigiani di genere, mentre il quartetto è completato dall'ex Poi Dog Pondering Bruce Hughes al basso e John Chipman dei Band Of Heathens alla batteria. Manca all'appello stavolta la chitarra e il vocione di Jon Dee Graham, e l'assenza non è di quelle che passano inosservate. Benedice il tutto fornendo il suono del suo wurlitzer e altre buone canzoni per far sostanza il redivivo Donnie Fritts, oscuro eroe del dietro le quinte della scena di Nashville. Fatte le debite presentazioni e celebrazioni di encomiabili carriere, resta allora da dire che Roselight continua ad avere i medesimi difetti dei suoi tre predecessori in studio (fa storia a sé il live d'esordio Sunday Night Line-Up del 2002), vale a dire un gran bel suono al servizio di interpretazioni vocali senza troppa anima (il coinvolgente funky di Wish The Wind, scritta da Hughes, urla di dolore in certi momenti per la mancanza di una doverosa ugola assassina), o brani buttati giù senza un po' di sano timore di incappare nel già sentito più bieco (Riverside di Newcomb si crogiola ad esempio in una ovvietà fin fastidiosa). Come è facilmente immaginabile, la grande esperienza dei quattro regala comunque momenti più che godibili, come lo standard country della famiglia Carter Wanderin Boy, il bel swamp-rock scritto da Fritts con Eddie Hinton Struttin Yer Stuff, e soprattutto la vacanza blues di Holdin On To Nothin (scritto da Bruton in collaborazione con Randall Bramblett e Bill Payne). I quattro si divertono a variare negli stili, e questo fa di Roselight un ragionevole passatempo che passa da una sana routine da rock polveroso come Where Did The Time Go? o Nice To Meet You, a brani con proprio poco da dire (l'infelice apertura di What Love Can Do) ad altre convincenti ballate (Build Your Own Prison di Billy Bob Thornton, già sentita nel disco dei Boxmasters). Pur nella sua buona qualità di base, Roselight appare come la quarta occasione persa dai Resentments per essere una vera fucina di grandi canzoni oltre che di grandi talenti. Ci sarà una prossima volta? (Nicola Gervasini)

BILL RYDER-JONES

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