lunedì 29 giugno 2009

STEVE WYNN - Live In Brussels




Giugno 2009
Rootshighway


VOTO: 7


Alla fine del diciottesimo secolo il filosofo e poeta tedesco Novalis scriveva che esistono tre principali gruppi di uomini: i selvaggi, i barbari inciviliti e gli europei. Oggi come oggi potrebbe sembrare una battuta di Woody Allen, americano (quindi "barbaro incivilito" secondo Novalis?) talmente innamorato del vecchio continente da farne il set di molti suoi film. Sicuramente Steve Wynn sarebbe stato invece considerato nella prima categoria, quella dei selvaggi, un'appartenenza che il rocker ha voluto ribadire in anni recenti con la serie di dischi ad alto tasso di adrenalina e elettricità realizzati con i Miracle 3. Poi l'anno scorso l'amico Chris Eckman (Walkabaouts) lo ha invitato nel suo nuovo mondo dorato in Slovenia per registrare Crossing Dragon Bridge, e il selvaggio, grazie alla "cultura superiore" degli europei, ha prodotto il disco più "adulto" (nonché più controverso) della sua carriera. I fans si sono divisi tra chi non accetta questo nuovo Wynn in veste ripulita, e chi invece ha applaudito la svolta decisa, magari facendo notare come già l'album …Tick …Tick …Tick palesasse alcune evidenti crepe e ripetizioni nella formula tutta chitarre dei Miracle 3. Live In Brussels documenta la tournee europea seguita al disco dello scorso anno, e già dalla formazione risulta evidente il tentativo di Steve di far convivere nello show le sue due nuove anime. Sul palco del mitico Ancienne Belgique di Bruxelles lo accompagna una band stellare (ribattezzata The Dragon Bridge Orchestra per l'occasione) formata dallo stesso Chris Eckman in encomiabile veste di spalla alle chitarre, il fido Chris Cacavas alle tastiere e l'inseparabile Linda Pitmon alla batteria, oltre al funambolico violinista Rodrigo D'Erasmo (vero mattatore della serata) e il bassista Eric Van Loo, già presente nelle ultime edizioni dei Miracle 3 e spesso membro fisso dei Willard Grant Conspiracy. In questi casi il giudizio va sempre diviso tra quelle che sono le considerazioni sull'operazione discografica e quello che poi è il contenuto artistico. Per quanto riguarda il primo aspetto Live In Brussels arriva a documentare una fase artistica durata per ora solo lo spazio di un disco, che guarda caso viene riproposto praticamente per intero, finendo per costituire una sorta di inutile doppione. Dall'altra parte è però un prodotto che si discosta nettamente da quel Live Tick del 2006 che documentava la vita live dei Miracle 3, e per questo può essere comunque benvenuto. Il formato in doppio cd appare subito necessario per dare spazio a qualche vecchio brano, visto che la vera sfida qui era in fondo quella di adattare anche il Wynn d'un tempo alle nuove atmosfere smussate e malinconiche della mitteleuropa. Resta poi da dire del DVD allegato, che riporta fedelmente tutto il concerto con immagini che lasciano però alquanto a desiderare, sia per la luce, sia per il fatto che il palco non permetteva ai cameramen di girare tra i musicisti, perdendo così il gusto del dettaglio. E non si capisce poi perché nella versione cd sia stata tagliata proprio la buona resa di Medicine Show, se non forse per il fatto che rappresenta uno dei pochi momenti ad alto tasso elettrico dello show. Nulla da ridire invece sull'esibizione: tutti i brani di Crossing Dragon Bridge riescono in qualche modo a togliersi di dosso quella patina leggera che rendeva forse troppo levigate le versioni in studio, e qui gran merito va al violinista D'Erasmo, che riesce a far suonare lo strumento come se fosse una terza chitarra aggiunta. I brani del repertorio di Wynn invece cercano una nuova identità con risultati alterni. Sicuramente ottima la resa di The Deep End, così come diverte il momento "gospel" (come lo definisce lo stessso Wynn) di Here On Earth As Well e continua sempre a emozionare My Midnight, che forse addirittura guadagna qualche sapore notturno in più con questo sound. Dove il disco invece sembra perdersi un po' è nel gran finale, quando il DNA di Wynn lo porta a tentare di alzare toni e volumi lanciandosi in una versione di Boston che non rimarrà nella storia, così come zoppicano l'altro amarcord dei Dream Syndicate (That's What You Always Say) o la 405 riesumata dal vecchio Dazzling Display. Nella capitale della Comunità Europea Wynn non passa forse l'esame da vero europeo, e al massimo ottiene una promozione a "barbaro incivilito". E Live In Brussels, pur nella sua rara eleganza, non toglie quella certa voglia di risentirlo percorrere le highways americane da selvaggio.(Nicola Gervasini)

giovedì 25 giugno 2009

WILLEM MAKER - New Moon hand


11/05/2009
Rootshighway
VOTO: 7,5
Specializzata in cause perse, scovate nella periferia del profondo sud, la Fat Possum quest'anno estrae dal proprio cilindro magico il nome di Willem Maker, e ancora una volta sorprende tutti nel portare alla luce talenti fuori dagli schemi. Il ragazzo in questione viene dall'Alabama, ed ha al suo attivo un embrionale album auto-prodotto (Stars Fell On) e tante idee da modellare in un lavoro più compiuto. New Moon Hand è il suo personale e ben riuscito omaggio al blues sudista, genere che Maker amplifica, indurisce e destruttura con grande maestria e originalità. Il riferimento più evidente, oltre al compagno di scuderia R.L.Burnside (c'è il figlio Cedric tra i musicisti coinvolti), potrebbe essere il William Elliott Whitmore più arrangiato sentito di recente, ma Maker porta il livello del volume ancora più in là, creando spesso un muro del suono che ha i sapori quasi dei White Stripes o dei Black Keys. Sarebbe invece interessante approfondire in analisi a parte questa nuova vena mistica che sta prendendo piede nella provincia americana, chiedendoci magari come mai il linguaggio da predicatore, adottato anche da Maker, stia riscuotendo così tanti giovani adepti. La sua vena religiosa è infatti la stessa sentita anche in molti prodotti di ultima generazione rootsy, come ad esempio quelli di Tom Feldmann e i suoi Get-Rites, ma lui esalta le proprie esortazioni alla redenzione dell'anima con quel suo vocione cavernoso e minaccioso, perso in un mare di slide-guitars sputate fuori dai fanghi del delta e rozzi riff da hard-blues d'altri tempi. Rispetto alla media, Maker sembra però avere un passo in più in termini di scrittura: se ad esempio Rain On A Shinin o White Ladye sono semplici strutture blues tarate sulle sue corde, le sofferte Hex Blues e Saints Weep Wine svelano un autore sopraffino, con il sangue infarcito di cantautorato texano di vecchia scuola. E la voglia di gettare ponti sugli stili non finisce qui: The Greatest Hit sa di alt-country anni 90, New Moon Hand presenta un lonesome hobo da strada intento a soffrire sulla propria sgangherata chitarra acustica, mentre Old Pirate's Song è un roccioso heartland-rock. Musicalmente il disco mostra già una grande maturità, ma in studio come backing-band girano nomi rodati e altisonanti come i Lambchop e i Silver Jews, e nella schiera di musicisti in session ritroviamo anche vecchi marpioni come Jim Dickinson e l'inconfondibile sei corde di Alvin Youngblood Hart. C'è tutta la tradizione del sud dunque, ma rivista con piglio sperimentale e "progressista", il che rende New Moon Hand un album in grado di oltrepassare gli steccati di genere. Che vi ritroviate nella lunga cavalcata elettrica di Lead & Mercury, nella rauca malinconia di Rosalie o negli accordi aperti di Hard To Told (sembra Ride On dei vecchi AC/DC…), in ogni caso New Moon Hand è la nuova speranza di rinnovamento di quel suono del Mississippi che tutti amiamo incondizionatamente. (Nicola Gervasini)

martedì 23 giugno 2009

THE WILD SPECIALTIES - Beautiful Today


18/05/2009
Rootshighway

VOTO 7,5


Loro hanno tutta l'aria di non essersene neanche resi conto, ma Beautiful Today può tranquillamente entrare nel novero delle piccole sorprese dell'anno. Inaspettata per molte ragioni: primo perché viene dagli Wild Specialties, sconosciuta band olandese, esordienti su disco, ma non sulla strada (girano i festival di tutt'Europa da ormai quindici lunghi anni). Secondo perché anche se da queste parti siamo abituati a dischi di tutto rispetto fatti da dopolavoristi con l'hobby della canzone, Beautiful Today ha in certi momenti una statura da grande che lo distingue dal mondo della sufficienza. Forza dunque, avanti allora con il passaparola, unica speranza di dare giustizia a questo prodotto, visto che i ragazzi sono talmente poco convinti delle loro possibilità, che navigando on-line ci si dispera non poco anche solo per scoprire come e dove comprare questo cd (basta chiederlo direttamente a loro è la risposta, ma per evitarvi l'incombenza, sotto trovate un link utile al fine).

Voi direte: passaparola di che? Di un disco indefinibile, che passa per essere rock di derivazione springsteeniana (Be Still ha un incipit che sa delle sue cose più recenti, il maestoso finale di Beautiful Today sciorina sax alla Clemmons senza timore), ma che alla fine sembra più un disco buono per fare da sottofondo ad un cocktail after midnight in un lounge club di New York. Canzoni nate nella polvere delle strade roots dunque, ma ripulite in atmosfere jazzy (in Another Time par di sentire gli Steely Dan quando flirtavano con il country grazie alla chitarra di Jeff "Skunk" Baxter), negli elementi jazz-pop alla Paul Weller di Angels o di Red Sun, nei blues malati di Delta (Rivendel Blues) o nelle reminiscenze di quanto i Morphine insegnarono al mondo nel decennio scorso (Juliette). Non ci sono cadute di tono in questi brani, solo forse una mancanza di focus su dove vorrebbero andare o cosa vorrebbero essere, perché se è vero che fiati, violini e Fender Rhodes alla Brian Auger si sposano benissimo tra loro, alla fine il rischio per questi dischi è quello di rimanere oggetti troppo a cavallo di varie nicchie per conquistarsene una.

All=Fine rende bene l'idea: ha un riff di sax e un incedere percussivo rubato al Tom Waits anni 80, ma un distaccato formalismo di fondo che l'allontana dallo spirito da clochard del suo padre spirituale. Si frequentano mondi sonori più sofisticati qui, non necessariamente freddi, ma sicuramente volti altrove rispetto all'heartland-rock che sta alla base di tutto. Loro però non sembrano aver paura di sembrare troppo lievi e smussati, nemmeno quando in Cactus Night finiscono addirittura per ricalcare melodie alla Coldplay. Confusi su cosa aspettarsi da questo disco dunque? All'inizio anche noi, alla fine un po' forse anche loro stessi, eppure si ha sempre voglia di un altro giro, e questo è un risultato non indifferente in quest'epoca di frenetici ascolti on-line. Maneggiatelo con cautela dunque, ma se vi piace, abusatene pure.
(Nicola Gervasini)

sabato 20 giugno 2009

THE TRAGICALLY HIP - We Are The Same



Giugno 2009
Buscadero


VOTO: 7


Qualsiasi canadese potrebbe prendervi per pazzo se, elencando i grandi nomi della loro musica, vi dimenticaste dei Tragically Hip, una band pressoché ignorata dalle nostre parti, anche quando nei primi anni novanta sfornavano piccoli capolavori di college-rock a metà tra reminiscenze del REM-sound e le asprezze dell’alternative-rock dell’epoca (da recuperare perlomeno Up to Here del 1989 e Fully Completely del 1992). Il gruppo di Gordon Downie in questi anni non ha mai smesso di pubblicare dischi e vivere on the road, sempre con un successo limitato alla propria patria natia. We Are The Same è il loro dodicesimo album in studio, e rappresenta un nuovo punto di svolta per chi, come loro, ha fatto del suono della chitarra il proprio marchio di fabbrica. Potremmo definirlo il loro “album pop”, se non fosse che la brit-music ha da sempre rappresentato un elemento più o meno nascosto del loro rock, ma è certo che spiazza un po’ sentire un loro disco iniziare con una Morning Moon che fa tanto Morrissey, o sentirli alle prese con un pop con ritmo sincopato come Coffee Girl (non a caso la protagonista del brano ascolta “la vecchia Cat Power e il classico Beck” mentre serve ai tavoli). Sembra quasi che Downie abbia volutamente cercato l’impatto immediato, quello che fa si che brani come The Exact Feeling o Honey, Please possano essere memorizzati con facilità, ma fortunatamente c’è anche molto di più. Il disco infatti potrebbe essere considerato una sorta di concept sul male del vivere quotidiano, e in questo senso è davvero splendida la lunga parte centrale costituita dai sei minuti di Now The Struggle Has A Name e dai 9 della The Depression Suite (bastano i titoli per rendere l’idea), indolenti melodie da pomeriggi uggiosi infarcite di archi struggenti e testi mai troppo esagerati. I momenti rock non mancano, Speed River e Frozen in My Tracks affilano i riff di chitarra quanto basta per ricordare quanto rumore sappiano fare quando vogliono, ma la produzione di Bob Rock, un veterano dell’hard rock da radio FM americana (Metallica, Motley Crue e Bon Jovi tra i suoi assistiti), tende sempre a tenere tutto nel rassicurante recinto della facile fruibilità, con qualche inevitabile scivolone nel mainstream (Love Is The First). Meno male che il finale di Country Day - che sembra una delle migliori ballate degli Hoodoo Gurus che furono - ci riconsegna il classico suono degli Hip. Chiusura alla grande per un disco molto intrigante quanto irrisolto, e ancora non pienamente convinto sulla nuova strada da intraprendere. Forse prossimamente, con un produttore più coraggioso, si potrà dare miglior forma a tanto ben di dio.
Nicola Gervasini

giovedì 18 giugno 2009

EVASIO MURARO - Canzoni per Uomini di Latta


Giugno 2009
Recensione speciale per il sito di Evasio Muraro


Ho sempre pensato che il percorso per la creazione di un "rock italiano" sia rimasto in qualche modo monco. Alla fine degli anni 70 nomi come Finardi, Fossati, Graziani, Fortis e molti altri fecero grandi cose in tal senso, non limitandosi a scimmiottare gli americani e staccandosi dalla sudditanza del primo rock nostrano verso il progressive inglese, ma semplicemente provando a creare un modo di fare rock "all'italiana". Le esagerazioni sonore degli anni ottanta hanno purtroppo ucciso la scena e pochi di loro sono sopravvissuti artisticamente. Evasio Muraro con i suoi Settore Out è stato uno dei protagonisti del risveglio degli anni 90, e dopo una carriera spesa a seguire il mito americano con i Groovers e quello della musica popolare italiana con le sue produzioni soliste recenti, prova coraggiosamente a riprendere un discorso in cui nessuno sembra ormai credere più. Canzoni Per Uomini Di Latta avrebbe fatto molto rumore trent'anni fa esatti, quando aprire un disco di musica italiana con la chitarra distorta di Distratto era cosa che solo un Ivan Graziani si permetteva, oppure quando solo Alberto Fortis osava azzardare linee melodiche tutte nostrane come quelle di Semino Errori, risultando comunque indiscutibilmente "rock" nell'ispirazione e nei risultati. Muraro si rivela autore davvero particolare nel dipingere sensazioni con i suoi giochi di parole arditi e le sue immagini poetiche, e quando uno scrive una frase come "inchiodo latte d'argento al tetto perché la pioggia faccia rumore" si capisce subito che non stiamo parlando di un banale cantastorie. Ma la grandezza di questo disco è quella di essere davvero una mosca bianca nel panorama musicale nostrano, perché non è un album che cerca di ricreare lo spirito della musica americana in versione padana come le canzoni di Ligabue (per prendere l'esempio più noto, ma avrei potuto dire qualsiasi altro rocker nostrano di marca springsteeniana a qualsiasi livello), e nemmeno flirta con il nuovo indie italiano tanto di moda in questi in tempi, ma semplicemente ritrova il gusto di quel rock italiano che sapeva unire influenze yankee (Hai Aspettato o Il Granchio), l'innato amore per il jazz dei nostri migliori musicisti (In equilibro), echi di italico rap (La Fabbrica In Silenzio e Osteria Italia) o la grande tradizione folk dei nostri cantautori ritrovata in Lello. Piace anche la cura nella ricerca dei suoni giusti (lo aiuta il vecchio compare Daniele Denti), vezzo raro in Italia, dove di solito il lato produttivo è sempre mal considerato, e la chitarra acustica distorta e dilaniata che commenta Tuffati farà davvero la gioia delle vostre casse. E' raro oggi poter dire di un disco che ci mancava, persi come siamo in questa marea di produzioni all'insegna del tutto già detto e del tutto da ripetere, ma davvero Canzoni Per Uomini Di Latta sembra trovare un posto nelle nostre discografie che nessuno si azzardava più ad occupare da tanto tempo. (Nicola Gervasini)

martedì 16 giugno 2009

LITTLE GREEN - Crossing Lanes


Maggio 2009
Rootshighway

VOTO: 6,5

In Scandinavia l'etichetta Rootsy.nu è ormai una benemerita organizzazione (comprende la label, un magazine e il negozio online) che sta facendo emergere una scena musicale che non nasconde tutta la propria "yankeefilìa". Su queste pagine abbiamo già avuto modo di conoscere il bluegrass degli Yonder, il country di Richard Lindgren, o quella Lancaster Orchestra che rappresenta il fiore all'occhiello dell'etichetta. Prodotti di gran valore stilistico, quanto a volte limitati per quel tono un po' scolastico e sempre troppo ligio alle regole che hanno spesso i musicisti europei quando affrontano materie culturalmente non proprie. Non fanno eccezione i Little Green, band di Goteborg che si affaccia al grande mercato indipendente dell'"americana" con questo Crossing Lanes, divertente scherzo bluegrass interamente composto da brani autografi. Thomas Pontén e Andreas Johannesson sono i due leader, autori e chitarristi della band, ottimi musicisti dotati di grande passione. Il disco scorre senza troppi intoppi, tra country-rock di stampo classico (Long Way To Go, Merry Go-Round e Cool Down), encomiabili tentativi d'autore (It's Alright, Grab A Hold Of You e Call Me) e divertenti numeri da jug-band da strada (The Bells Are Ringing Their Last Call e Love's On The Other Side Of Town, entrambe impreziosite con i fiati). C'è tutto quanto ci si aspetta di trovare in un disco come Crossing Lanes, dal country jazzato alla Willie Nelson di Don't Make Me Dance, alla ballatona rurale strappalacrime (Give Me A Reason), fino alla giga strumentale (The Crop Is Ripe) che chiude un disco che fa di tradizione una necessità di vita. Consigliato ai sostenitori di una definizione molto stretta e rigorosa della "roots-music"
(Nicola Gervasini)

www.myspace.com/littlegreen
www.rootsy.nu

domenica 14 giugno 2009

JOHN DOE & THE SADIES - The Country Club


27/05/2009
Rootshighway



VOTO: 6
Sarà vero che ogni tanto bisogna lasciarli sfogare e farli divertire un po' questi nostri beniamini del rock, ma questo Country Club è probabilmente l'ultimo rappresentante di un mondo che si avvolge su sé stesso, si monadizza e cessa definitivamente di pulsare vitalità. Non ce l'abbiamo in particolare con il malcapitato - ma per noi sempre mitico e mitizzabile - John Doe, ma in generale con la troppa facilità con cui si ricorre ormai all'album di cover, al tributo, al disco da ricerca storica, al progetto nato per spirito di collaborazione. Un'arte nobile, che negli anni '90 ha probabilmente contribuito a regalare al rock la piena coscienza e conoscenza delle proprie radici e della propria ragion d'essere, ma che ora sta diventando un fastidioso appuntamento di ogni insigne discografia. Ci sono troppi dischi come Country Club in circolazione, progetti nati per pura passione, la stessa che ha portato il vecchio leader degli X e i Sadies, roots-band canadese di tutto rispetto e di grande esperienza, a unire le forze per dimostrare tutto il loro amore per il country e il bluegrass americano. Quindici brani, undici classici più tre titoli forniti della band dei fratelli Dallas e Travis Good (due sono strumentali) e una It Just Dawned On Me che porta l'illustre firma Doe/Cervenka, tanta classe e un suono molto pulito, quasi fin troppo levigato in alcuni momenti: è questo il piatto ricco che sa molto della solita minestra di quest'album. Il grande impegno profuso da John per interpretare super-classici come Help Me Make It Through The Night di Kris Kristofferson o Take This Chains From My Heart di Fred Rose risulterà sempre vano quando ne esistono già mille altre versioni, tra cui rispettivamente quelle di Gladys Knight e Ray Charles restano francamente imbattibili. Doe ha da sempre rappresentato il link tra il punk californiano e la musica delle radici americane, ma in questo disco sembra voler saltare definitivamente lo steccato a favore della seconda, perdendo tutta la carica e l'irriverenza che aveva animato ad esempio l'avventura dei Knitters, per certi versi assimilabili a questa nuova formazione per spirito ed intenti. Troppa perfezione dunque, troppa poca sfacciataggine nel dare le proprie versioni di Merle Haggard (Are The Good Times Really Over For Good) o di evergreen come (Now And Then) There's A Fool Such As I o Detroit (I Want To Go Home) del duo Mel Tillis/Danny Dill. Doe è uomo in grado di strappare applausi quando vuole, la versione di The Night Life di Willie Nelson è una delle sue migliori interpretazioni di sempre, ma recenti album come Forever Hasn't Happened Yet e il sottovalutato A Year in the Wilderness avevano dato l'impressione che l'artista avesse ancora molto da dire di suo, anche se non più a livelli di prima grandezza. Invece Country Club è proprio il disco di passaggio di cui si poteva fare a meno, un ascolto piacevole quanto un compitino ben svolto ma fine a sé stesso. (Nicola Gervasini)
www.myspace.com/thejohndoething

venerdì 12 giugno 2009

FABIO CERBONE - Levelland - Nella Periferia del Rock Americano


Maggio 2009
Rootshighway

[Pacini editore/ Fanclub]
pp. 184
La strada, l'orizzonte irraggiungibile e la possibilità dell'eterno viaggio in quegli spazi infiniti che noi italiani non potremmo mai sperimentare (anche solo per banali limiti geografici): da sempre è questo mito americano, che fa della mobilità una filosofia di vita - ancor prima che una metafora dell'esistenza - ad aver stuzzicato anche la nostra cultura. Levelland di Fabio Cerbone è in questo senso un libro coraggioso, perché racconta di quella volta in cui la cultura americana si è invece fatta piccola, statica, e - usando un termine che è tutto nostro - "provinciale". In altre parole un mondo spogliato di qualsiasi fascinazione letteraria, se non quella dell'epica della sopravvivenza. Se John Mellencamp (ma prima e dopo di lui mille altri), aveva cantato delle "Small Town" americane come del punto di partenza per una fuga, i nuovi Bob Dylan di questa storia restano invece a Duluth e non approdano mai a New York, e le loro Highway 61 non vengono né percorse, né tantomeno rivisitate. Una storia yankee - dove sarebbe più facile citare Fogazzaro che Kerouac - meritava un'analisi approfondita, perché qui si parla degli Uncle Tupelo che "di fronte a sé hanno soltanto un orizzonte chiuso, fatto su misura dell'uomo comune di un America altrettanto comune" o dei Jayhawks, che vivono in una Minneapolis dove "altro che interminabili Interstate o dimenticate strade secondarie, la guida resta unicamente il Mississippi". Un modo di vivere integralmente la propria piccola realtà che John Steinbeck sintetizzò bene scrivendo che "un texano, fuori dal Texas, è uno straniero". Levelland cerca le motivazioni che spinsero vent'anni fa dei ventenni della X-Generation ad affidarsi a quell'old time music che gli anni ottanta sembravano aver definitivamente sepolto. Non di fiera e patriottica esibizione delle proprie tradizioni si trattava, ma di tragica necessità di riempire lo spaventoso vuoto culturale lasciato dall'era degli yuppies e della "reaganomic" con l'unica espressione culturale a disposizione nella campagna americana. Lo stesso Ryan Adams spogliò quella scelta tradizionalista di qualsiasi vanità intellettuale o programmatica, quando cantò in Faithless Street dei Whiskeytown: "ho formato questa country-band, perché il punk è difficile da cantare". Roots-music più per necessità che per passione dunque, per l'urgenza di uscire con la mente da quei "piccoli mondi antichi" americani creati dalla nuova Grande Depressione dei primi anni novanta. Questo libro è un viaggio in un non-viaggio, dove i personaggi non ci provano nemmeno a sognare la ribalta della grande città, e soprattutto dove è Cerbone stesso che deve muoversi, andando a scovare le loro storie di cittadina in cittadina, aiutandosi con vere cartine geografiche poste in calce ad ogni capitolo. Vicende musicali poco raccontate quelle degli eroi dell'alternative country: laddove il grunge di Seattle recuperava negli stessi anni i linguaggi del punk e dell'hard rock per raccontare la propria desolata esistenza, dei ragazzi persi nel "bel mezzo del nulla" recuperavano traditionals, Nashville e i suoni "roots". Un termine, quest'ultimo, che vi suonerà familiare se bazzicate spesso queste pagine, ma, come sottolinea Marco Denti nella prefazione al libro, roots vuol dire "radici, semi, e una totale indifferenza per i frutti". Perché mentre il grunge ha avuto le sue star e il suo grande momento mediatico, l'alternative-country è rimasto un fenomeno più sommerso, senza neppure un poeta maledetto da piangere, nonostante alcuni titoli qui trattati abbiano raggiunto anche vendite interessanti. I grandi palcoscenici del rock si apriranno (senza neanche troppi clamori) solo anni dopo per Ryan Adams e Jeff Tweedy con i suoi Wilco, vale a dire gli unici due eroi della storia che ad un certo punto hanno deciso di scappare dalla periferia - sia artisticamente che fisicamente - alla ricerca di spazi più liberi. Levelland racconta il tutto sia con il piglio accessibile a tutti del romanzo storico, sia con quel taglio un po' specialistico che lo rende anche una valida guida all'ascolto, utile sia per chi già conosce anche i protagonisti più oscuri della vicenda, quanto ovviamente - e questa è forse la speranza/scommessa più grande - per le nuove generazioni. Non sta a noi dare un giudizio sul libro: Cerbone qui gioca in casa. Quello che ci preme sottolineare è come Levelland sia a tutti gli effetti il vero manifesto programmatico del sito Rootshighway, perché racchiude tutto l'amore per il "grande piccolo" che anima questa webzine, e perché definisce alla perfezione il termine "outsider" posto in copertina del libro. E ovviamente anche perché racconta di una musica straordinaria. (Nicola Gervasini)
DOVE ACQUISTARE IL LIBRO:-
ordinabile in tutte le librerie da maggio- Online da:
> BOL

mercoledì 10 giugno 2009

LEONARD COHEN - Live in London


22/04/2008
Rootshighway

VOTO: 10


10 Marzo 2008: Lou Reed introduce Leonard Cohen nella Rock And Roll Hall Of Fame leggendone i versi delle canzoni. Declama First We Take Manhattan, dove si racconta di un destino incrociato al suo: laddove Leonard conquista prima Manhattan e poi Berlino, Lou ha catturato prima l'essenza della capitale tedesca e solo dopo molti anni quella della "sua" New York. "Dobbiamo ritenerci fortunati di poter essere contemporanei di quest'uomo" dichiara Reed prima di chiamare Cohen sul palco. Leonard entra, ringrazia, e dichiara di essere ancora incredulo di questo privilegio. Dice di aver perso ogni speranza nel 1975, quando sentì Jon Landau dichiarare " Ho visto il futuro del Rock and Roll, e non è Leonard Cohen". Risate in sala: la telecamera coglie lo stesso Landau in mezzo al pubblico intento a rassicurare i vicini che la sua frase non era esattamente quella. Il resto della dichiarazione è fatta semplicemente dei versi immortali della sua Tower Of Song. Tutto Cohen è in quei dieci minuti di cerimonia: la modestia, la capacità di esprimere sé stesso solo attraverso i versi dei suoi brani, l'ironia di un uomo abituato a scrivere di visioni cupe e di umanità frantumate. Ma per la definitiva glorificazione di una delle personalità più importanti del secolo scorso, mancava l'opera finale. E non poteva essere certo il suo ultimo album, quel Dear Heather che era un ammasso di appunti e abbozzi di canzoni senza troppo senso, se non quello di cantare la propria morte in anticipo sui tempi.

Un finale troppo oscuro e in tono minore per un uomo che invece il 17 Luglio del 2008 ha calcato il palco della O2 Arena di Londra, con un sorriso e una vitalità degna del più baldo e strafottente giovanotto rock odierno. Lasciamo perdere tutta la trafila di eventi che hanno portato alla pubblicazione di questo Live In London: avrete avuto modo di leggere mille volte degli imbrogli finanziari e dell'indigenza economica che hanno costretto un settantatreenne abituato a vita ascetica a rimettersi in gioco tra la folla. Questo DVD (o semplice CD, se decidete di perdervi la vista del vecchietto più affascinante che abbia mai calcato un palco rock) è il premio alla carriera che Leonard ha fatto a noi…ma soprattutto a se stesso. Il CD non renderà mai giustizia alla sincera commozione di quest'uomo, che dichiara di essere onorato di poter cantare per il proprio pubblico, e mai frase così di circostanza è sembrata così vera su quel viso scavato. Leonard canta (benissimo tra l'altro: fiato corto permettendo, la sua voce è sempre migliorata col tempo, quando avrà 180 anni canterà divinamente), suona chitarra e sintetizzatore all'occorrenza ("non preoccupatevi se non so suonare uno di questi cosi, tanto fa tutto da solo"), ride e scherza, e quando può, balla pure. Sembra un ragazzino intento a realizzare un sogno, e si concede per tre ore, manco fosse davvero lui l'instancabile Springsteen che Landau battezzò a futuro del rock. Performance perfetta dunque, grazie anche a una band ineccepibile, anche perché affidata agli arrangiamenti del bassista Roscoe Beck, e non a quelli della deleteria Sharon Robinson, una che ha fatto tanti danni nelle ultime produzioni in studio, e che qui viene finalmente relegata a capo-corista. Registrazione ottima, immagini patinate e allineate al ritmo lento del padrone di casa, pubblico caldo e devotamente ammirato.

Tutto talmente perfetto che, se si dovesse trovare un difetto, ci si dovrebbe proprio appellare all'eccessiva impeccabilità, con piena lontananza dallo spirito bohemien e dalla poetica beat da cui Cohen proviene. Ma il Leonard catturato in questa serata non è il poeta maledetto di Live Songs (1973), nemmeno il canadese errante, zingaro e ramingo di Field Commander Cohen (l'album è del 2001, la tournee del 1979), o il fascinoso profeta sintetico del Cohen Live (1994). Qui è un santone che gioca con le sue stesse parole, che prende tutti in giro quando identifica nel de-dum-dam-dam che commenta tutta Tower Of Song il senso di tutti i misteri della vita cercati per tutti questi anni. La scaletta la lasciamo scoprire a voi, magari sottolineando che la resa di The Gypsy's Wife resterà a memoria come una delle sue migliori interpretazioni di sempre, e che spiace che la celebrazione abbia dimenticato completamente un album pieno di tutto la sua miglior poetica come Songs Of Love And Hate. Sembra che Cohen abbia ritrovato forze e motivazioni per scrivere nuove canzoni e rientrare in studio. Ben venga se ciò avvenisse, ma se anche tutto finisse qui, il percorso sarebbe comunque completo. Eppure lui non sembra avere intenzione di fermarsi, e a questo proposito nel live racconta che il suo maestro di Zen Rinzai, che oggi ha passato abbondantemente i 100 anni di vita, ai suoi adepti un giorno ha detto "Scusatemi se non sono morto". Sarai comunque scusato Leonard.
(Nicola Gervasini)

www.leonardcohen.com

martedì 9 giugno 2009

HOWARD ELIOTT PAYNE - Bright Light Ballads


29/04/2009
Rootshighway


VOTO: 7,5


Ogni tanto qualche rockstar britannica si prende il vezzo di travestirsi da yankee e di regalarsi "l'album americano". Tumbleweed Connection di Elton John, Muswell Hillbillies dei Kinks, Tupelo Honey di Van Morrison, Rattle and Hum degli U2 o Give Out But Don't Give Up dei Primal Scream sono i primi illustri esempi che vengono in mente. Ci si butta a capofitto in tradizioni lontane dai fumi di Londra (o dalle verdi colline irlandesi), e molto spesso il trucco funziona. Sarà questo ad aver dato la forza ad Howard Eliott Payne di provarci fin dall'esordio solista, quasi a voler mettere un marchio sulla propria vita artistica che lo allontani fin da subito da Liverpool, la sua città natale. Lui nella patria dei "fab four" era conosciuto semplicemente come Howie Payne ed era il leader degli Stands, una brit-pop-band con due album all'attivo, 5 singoli giunti in top 40 UK, e tour come spalla di Libertines, Oasis, Jet e "sua moddità" Paul Weller. Bastano dunque le antiche frequentazioni per farvi capire il taglio netto operato da questo ragazzo, che ha mollato il gruppo proprio sul più bello per prendersi una lunga vacanza in Texas. Da dove se ne è uscito con questo Bright Light Ballads, poco più di mezz'oretta di brani profondamente "Made In Usa," registrati con voluto gusto retrò su un rudimentale registratore a otto piste. E così Payne conferma che il link Usa-Uk è sempre vivo, perché il risultato è uno dei migliori dischi da vero hard-core troubadour sentito in questi primi mesi del 2009. Complice anche il fatto che Howard abbia evitato le trappole della megalomaniaca autoproduzione, affidando le sorti del suo primo figlio artistico a Ethan Johns, mister "come-lo-produco-io-Ryan-Adams-non-lo produce-nessuno", con i risultati perfetti che ci si aspetta da cotanto nome in termini di piena credibilità del roots-sound. Payne però ci ha messo del suo, scrivendo una serie di belle canzoni folk come Dangling Threads o Until Morning, piccoli gioiellini che probabilmente sarebbero stati in piedi anche in uno scantinato di Liverpool. Inutile cercare nuovi spunti o particolare personalità in questo prodotto: Bright Light Ballads è un disco di genere fin dalle intenzioni e dai per nulla nascosti rimandi, che vanno dal Neil Young acustico e sofferto echeggiato in You Can't Hurt Me Anymore, ai Byrds di media età risentiti nella melodia di Underneath The Sun Rising. Il vero modello resta però Ryan Adams, pesantemente presente nei meandri di ballate come Summer Has Passed o Walk By My Side, brani che bisognerebbe risentire senza l'ingombrante presenza di Ethan Johns per capire fin dove sono davvero farina del suo sacco. Intanto godiamoci un disco fresco, due brani strepitosi come Come Down Easy e I Just Want To Spend Some Time With You, e la classe dimostrata nel finale tutto old-time-folk di Lay Down Your Tune For Me. Sono esattamente quelle perle di saggezza da rock delle radici che cerchiamo instancabilmente nei tanti cd che passano in questi paraggi. (Nicola Gervasini)
www.myspace.com/howardeliottpayne





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domenica 7 giugno 2009

TOM BROSSEAU - Posthumous Success


22/5/2009
Rootshighway

VOTO: 5,5

Cominciano ad avere una certa età i tanti folk singer di questo inizio millennio, spuntati come funghi grazie alle nuove opportunità del mondo indipendente, ed è forse giunta l'ora di fare qualche bilancio su alcuni personaggi. Prendiamo ad esempio Tom Brosseau e il suo nuovo lavoro Posthumous Success, splendido titolo, da vero loser, considerando che lui è vivo e vegeto e pure in buona forma. Sarà che da sempre Tom invoca lo spirito sarcastico di Phil Ochs tra i suoi numi tutelari, lo stesso che nel 1970 s'inventò il primo Greatest Hits fatto da un'artista che di hit in classifica non ne aveva mai visto neanche l'ombra. Brosseau comincia ad essere un veterano del genere, è attivo fin dalla fine degli anni 90 e questa è la sua ottava uscita ufficiale. Mai niente di eclatante finora, solo tante piccole belle raccolte di folk-songs capaci e accattivanti, quanto basta per poter ricordare per lo meno What I Mean To Say Is Goodbye del 2005 e l'altro disco prodotto per la Fat Cat, Empty Houses Are Lonely del 2006, come titoli importanti per approfondire l'argomento.

Appare invece subito evidente che il successo postumo del titolo di questo nuovo capitolo difficilmente arriverà grazie a queste tredici frattaglie musicali. Nonostante sia forse il suo disco più studiato e minuziosamente prodotto, con gran dispiegamento di strumenti e suoni, le canzoni di Posthumous Success conservano quella sensazione di precarietà che era già apparsa evidente nel precedente Grand Forks e ancor più nella raccolta di demo acustici Cavalier. E forse è il caso di cominciare a far capire a questi artisti che dopo più di dieci anni on the road non possono più permettersi di infarcire un disco con una serie di inutili e scolastici strumentali (Boothill, Chandler e Youth Decay), che si beano del pling pling della sua chitarra senza molta sostanza. Sarebbe il caso di fargli capire che se si ha la fortuna di veder spuntar fuori dalla propria penna una buona canzone come Favourite Colour Blue, non è il caso di bruciarla in una poco invitante veste acustica subito all'inizio del cd, se poi la si recupera alla fine del disco in un ottima versione full-band. Sarebbe il caso di fargli capire che se quando s'impegna azzecca una canzone come Big Time, perché allora perdersi negli strani controtempi di Axe & Stump, o scivolare in una canzonetta senza grande futuro come Been True.

Si ha la sensazione che episodi come New Heights, Drumroll o la pur buona Wishbone Medallion avrebbero potuto volare più alto con qualche idea meno ingarbugliata. Brosseau è sempre rimasto al palo per la sua attitudine decisamente lo-fi e le non-produzioni della sua musica, ed è quindi giusto che abbia tentato una svolta che sa di maturità e crescita artistica. Ma se i risultati sono quelli rovinosi ascoltati in You Don't Know My Friends, vero pastrocchio sonoro da skippare in gran fretta, allora ridateci il vecchio folk sincero e amatoriale di un tempo.
(Nicola Gervasini)


www.tombrosseau.com
www.myspace.com/tombrosseau

venerdì 5 giugno 2009

BEN WEAVER - The Ax in the Oak


20/05/2009
Rootshighway


VOTO: 6


Una volta scelta una strada, non si torna più indietro. E' questa la frase che deve avere avuto in testa Ben Weaver registrando questo The Ax In The Oak, una sorta di emanazione stilistica del precedente sforzo Paper Sky verso…appunto. Verso dove? Ricapitoliamo: Ben Weaver esordisce nel 1999 come nuovo paladino di quel dark-sound cantautoriale americano che può trovare in Richard Buckner un esempio per certi versi molto simile, e ha pubblicato alcuni album per la Fargo come Stories Under Nails e Blueslivinghollerin che rimangono opere sempre consigliabili. Nel 2007 ha però incontrato il produttore Brian Deck, l'uomo nell'ombra dei dischi dei Califone, Iron&Wine e dei Modest Mouse, e ne ha voluto sposare idee e suoni. E così se Paper Sky era un disco nato secondo il dogma del "si registra qualunque idea e la si pubblica, vediamo cosa viene fuori…", The Ax In The Oak è l'album che mette ordine in questo nuovo freak-rock elettrico e spesso elettronico, cercando di sviluppare le idee in canzoni più compiute e definite. Operazione riuscita in parte, perché il titolo non riesce ancora a riportare il suo nome nell'elenco degli artisti di primaria importanza, cosa che gli album precedenti avevano quasi rischiato di fare. Dodici brani che mischiano folk rigenerato in sogni elettrici (basta ascoltare l'apertura di White Snow, che parte con piglio lo-fi e si risolve in alcuni riff a presa rapida), o deliziosi episodi di saltellante pop elettronico come Pretty Girl. Deck si prodiga nel consigliargli mille soluzioni di suoni, tastiere e organi, mentre la voce di Erica Froman viene usata spesso più come strumento che come backing vocals di classica concezione. Manca però il colpo di genio perché un faticoso e funereo folk come Dead Bird possa esplodere in un'apoteosi di struggimento, invece di spegnersi lentamente in un malinconico tappeto di archi. Eppure stavolta Ben ha centrato almeno un grosso obiettivo, quello di aver finalmente trovato la struttura giusta per questi nuovi ritmi nel suo modo di scrivere, perché ad esempio una grande folk-songs come Anything With Words corre benissimo in quanto Deck invece di sgambettarla con inserti inopportuni, la nobilita con elettriche decise e sinistri feedback in tono con il testo. Ma altrove, come in Alligators & Owls, la ricerca dello strambo a tutti costi produce solo una brutta copia di tanti altri folker stralunati di questi anni. In generale l'album spara subito le cartucce migliori (piacciono anche Red Red Fox e Soldier's War), ma nel finale si siede su sperimentalismi ancora troppo fini a sé stessi (l'inutile strumentale Said In Stones o la lunga e faticosa Hey Ray). Autore di testi mai banali, anche se scroscianti di virtuosismi lessicali un po'esagerati, Ben Weaver è un artista che sta cercando ancora una nuova identità. Sembra sulla strada giusta, ma la meta finale non è ancora questa.(Nicola Gervasini)
http://www.benweaver.net/www.myspace.com/benweavermusic




mercoledì 3 giugno 2009

THE FELICE BROTHERS - Yonder is the Clock


01/05/2009
Rootshighway
VOTO: 8,5
"La tua jazz-band ha perso il suo swing, la rivoluzione ha perso il suo ring, e quando tutto il tuo amore è stato una bugia, quello è il giorno della grande sorpresa". Bum! Knock-out. E va bene: ci arrendiamo. Stavolta vincono i Felice Brothers: la grande sorpresa l'hanno fatta loro a noi, e fine della partita. Per vocazione e "mission" Rootshighway avrebbe potuto portarli in un palmo di mano fin dal loro Tonight At The Arizona del 2007, o perlomeno in occasione del successivo acclamatissimo album omonimo. Eppure, se consultate il nostro archivio, ci scoprirete prudenti e guardinghi dichiarare che " si resta con il dubbio, già espresso in Tonight at the Arizona, se i Felice Brothers ci siano o ci facciano (…). Al prossimo turno stabilire se hanno spalle larghe e sufficiente ispirazione per portare oltre queste intuizioni". Il turno in questione si chiama Yonder Is The Clock, espressione rubata a Mark Twain (giusto per ribadire ancora un volta la propria appartenenza culturale), e stavolta è arrivata la conferma che aspettavamo. Il nostro problema era in fondo quello di aver paura di amarli troppo: loro nei panni della nuova Band degli anni 2000 sono infatti fin troppo perfetti per essere veri, con un'immagine e una biografia così inconfondibilmente "roots", da puzzare di sapiente costruzione fatta a tavolino. Per cui bene così, arriviamo forse tardi a promuoverli sul campo rispetto ad altri strilloni di "next big thing", ma quando dobbiamo sceglierci delle giovani guide spirituali, preferiamo sempre non inciampare nella frettolosa beatificazione dei nuovi fenomeni. Anche perché di miracoli non se ne fanno più neanche qui, e Yonder Is The Clock non sarà il nuovo No Depression che qualcuno ancora si ostina a cercare. Ma di grandi canzoni, per fortuna, ne è pieno questo disco come il mondo, e i fratelli Simone, Ian and James Felice semplicemente stanno dimostrando cosa vuol dire scrivere "storie d'amore, morte, tradimenti, baseball, stazioni, fantasmi, epidemie, celle carcerarie, fiumi rombanti e fredde serate invernali" senza scadere troppo nell'iconografia di un immaginario musical-letterario ultra-rodato. L'album vive essenzialmente di due anime: la migliore resta quella malinconica e introspettiva, quella che dalla The Big Surprise citata in apertura, passa per la strabiliante Ambulance Man, strascicato e struggentissimo lamento infarcito di citazioni "mitologiche" ("This was an old rodeo in the long ago, now it's a burning ring of fire"), o ancora nel melvilliano lamento del baleniere di Sailor's Song. Stavolta la combriccola dei Felice non ha proprio sbagliato nulla nel toccare le corde più profonde del miglior cantautorato americano, sia quando si dondolano nel ritmo pigro di Katie Dear, sia quando si lasciano andare alle amare riflessioni di And When We Were Young ("da dove venivano quegli aeroplani che hanno bruciato la nostra città? Tutto quel fumo e quella cenere ci hanno solo insegnato come schiantarci!"), fino all'apoteosi dei sei minuti di Coopertown, emozionante dedica a Ty Cobb, leggendario campione di baseball (uno sport che gli americani ammantano della stessa epica che noi italiani attribuivamo al ciclismo, prima che il doping ne distruggesse ogni possibilità poetica). L'album si sorregge però anche su una vena più scanzonata e movimentata (Penn Station e la sgangherata Memphis Flu), o su scherzi rockettari usciti direttamente dal loro studio di registrazione, che leggenda vuole essere stato ricavato da un ex pollaio (Chicken Wire e l'irresistibile Run Chicken Run). Sapranno confermarsi su questi livelli in futuro? Stavolta rispondiamo subito: chi se ne importa! Un disco come Yonder Is The Clock ormai l'hanno fatto, e potrebbe davvero bastare. (Nicola Gervasini)
www.myspace.com/thefelicebrothershttp://www.team-love.com/

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...