giovedì 30 maggio 2013
SEMI-TWANG
Semi-Twang
The Why and the What For
(Semi-Twang 2013)
ricordi di gioventù
Il nome del gruppo magari no, ma la loro storia la conoscete già, è sempre quella, la stessa di tante altre band come Del Fuegos, Del Lords o Rave-ups. Accadde infatti che alla fine degli anni 80 le major discografiche rastrellarono i pub alla ricerca di gruppi che riportassero il rock da strada nelle classifiche. Di quell'esercito i Semi-Twang sono forse i più dimenticati anche dagli appassionati. Venivano da Milwaukee, e il loro unico disco del 1988 (Salty Tears, ancora reperibile nel mondo dell'usato online) finì presto tra i "forati" in offerta speciale. Il leader John Sieger lo definì "un alt-country album realizzato nel paradiso dei sintetizzatori", e questa basta per capire l'impossibilità ad emergere. Nel 2011 però gli ex ragazzi, nel frattempo tornati alla loro vita ordinaria, hanno deciso di riprovarci, se non altro per passione, incidendo a distanza di quasi quindici anni il secondo album Wages of Sin, con così tanto divertimento da bissare subito con il nuovo The Why and the What For. Liberi da produttori imposti e big-drum sound mal digeriti, i Semi-Twang odierni suonano un roots-rock dai sapori antichi e confezionato secondo manuale, sospeso tra ballatone alla Green On Red (The More She Gets The More She Wants), echi del Dylan elettrico (52 Jokers), tributi agli Stones di vario voltaggio (Contents Under Pressure, Miss Watson) e perfino soul-ballad sgangherate (You love Everybody). Proprio quest'ultima, se accompagnata al pensiero di quanto meglio facciano oggigiorno i JJ Grey & Mofro con lo stesso sound, indica bene la dimensione un po' casereccia del disco, onesto e genuino, ma non sufficiente a scatenare una loro riscoperta.
(Nicola Gervasini)
www.semi-twang.com
lunedì 27 maggio 2013
CHARLES BRADLEY
Charles Bradley
Victim Of Love
[Daptone 2013]
www.thecharlesbradley.com
File Under: non è mai troppo tardi per il soul
di Nicola Gervasini (06/05/2013)La vicenda di Charles Bradley, "l'aquila urlante del soul" come l'hanno definito i critici americani, ve l'abbiamo già raccontata in occasione del suo primo album (No Time For Dreaming del 2011), ed è stata anche ben descritta in un film del 2012 reperibile anche in DVD (Charles Bradley: Soul of America del regista Poull Brien). 65 anni, ma discograficamente nato solo negli ultimi tre, Bradley ha trascorso una vita ad inseguire un'esistenza normale (vagabondo e cuoco le sue occupazioni principali), passando attraverso un paio di ricoveri che lo hanno visto molto vicino alla morte e il sogno di poter emulare il mito nato nel 1962, quando la sorella lo portò ad un concerto di James Brown che ne ha segnato l'esistenza. Tanto che il suo primo disco, al di là delle curiosità nate dalle particolari note biografiche, ci aveva lasciato perplessi proprio per l'eccessiva dipendenza dal Brown-pensiero, ma con Victim Of Love il nostro sembra invece aggiustare il tiro, mostrando anche - per quanto possa suonare paradossale dirlo parlando di uno over-sessanta - una evidente maturazione nel songwriting.
Accade che Bradley ha saputo meglio sfruttare l'apporto dei musicisti di casa Daptone, sempre guidati dal produttore Thomas "TNT" Brenneck, e soprattutto ha ampliato il range di influenze musicali, abbandonando il James Brown degli anni sessanta per spostarsi con passione nel decennio successivo, abbracciando in pieno l'era della Black Exploitation di Al Green (Let Love Stand A Chance), Isaac Hayes (la splendida Love Bug Blues), Curtis Mayfield (Confusion e Where Do We Go From Here?) , Booker T. & the M.G.'s (Dusty Blue). E dopo i toni pessimistici delle tante (e troppe) ballads del suo primo album, Bradley prova anche a lasciarsi andare a sentimentalismi (l'acustica Victim Of Love) e al puro gusto della vita (You Put The Flame On It), dove anche la tristezza di Crying in the Chapel (ballatona tutta fiati e arpeggi melodici alla Otis Redding) finisce per essere pretesto di gioia.
Resta il fatto che nonostante il generale miglioramento, continua a non esistere una "canzone alla Charles Bradley", e fin qui il peccato pare veniale in quest'era di personalità musicali derivate, ma lui però continua a dare l'impressione del fan che ha voluto provarci "per vedere l'effetto che fa" ad essere dall'altra parte del microfono. E la produzione sempre precisa e calligrafica del team della Deptone non riesce comunque a nascondere i toni da absolute beginner del soul tipici del personaggio. Come dire che Victim Of Love è un buon prodotto di un principiante di professione.
lunedì 20 maggio 2013
GUY FORSYTH
Guy Forsyth
The Freedom To Fail
(Blue Corn music 2012)
gospel rock
Il disco è uscito a fine 2012, ma troviamo doveroso recuperare e segnalarvi questo notevole sforzo di Guy Forsyth. Chitarrista e armonicista esperto, richiesto session-man, Forsyth è un personaggio tutto da riscoprire, sia con gli album della sua Guy Forsyth Band (attivi fin dal 1995) che con la band di pre-war blues degli Asylum Street Spankers con cui ha spesso girato e collaborato. Buona occasione è The Freedom To Fail, ottimo prodotto intinto di blues (l'iniziale Red Dirt), gospel (la work-song tradizionale Sink'em Low) e roccioso rock americano di marca sudista (The Hard Way, con un testo che omaggia direttamente Tom Waits, Bob Marley, Jimmy Page e Bob Dylan, che il nostro si diverte ad immaginare come solitari suonatori notturni). Forsyth fa tutto da solo, aiutato solo da una sezione ritmica ligia ai suoi dettami (Jeff Botta e Nina Singh) e da una serie di interventi di amici, tra cui va notato quello di Jon Dee Graham nella coinvolgente Should Have Been Raining. Cinquanta minuti scarsi di musica e un livello che, dopo lo scoppiettante inizio, cala leggermente solo quando il nostro cerca le variazioni sul tema come Can't Stop Dancing, un esperimento jazzy-style alla Bocephus King che diverte senza però esaltare troppo, o ballate come Balance che evidenziano la sua non troppo incisiva vocalità o Thank You For My Hands che pare una cosuccia (sempre in odore di gospel-music) fin troppo elementare rispetto al resto. Ma nel finale il disco riprende quota, a partire dalla poppish Played Again fino al bel finale di Home To Me. Alla voce dischi minori, The Freedom To Fail appare come opera maggiore.
(Nicola Gervasini)
sabato 18 maggio 2013
LISA RICHARDS
Lisa Richards
Beating Of The Sun
(Lisa Richards 2012)
folk-songs for the soul
Continua a vivere un po' nelle retrovie Lisa Richards, cantautrice che avevamo scoperto a fine 2006 con l'album Mad Mad Love. Il suo è un mondo un po' a parte, fatto di buoni sentimenti, "musica per l'anima" come ama definirla sul suo sito, dove sviluppa anche un intensa attività di lezioni di canto, songwriting e musica. Folksinger di stampo classico, decisamente simile alla prima Laura Marling per timbro di voce e soluzioni musicali (anche se la Richards può vantare di essere sulla piazza da più tempo), la nostra si ripropone con Beating of The Sun, un disco che davvero consigliamo agli amanti della canzone d'autore femminile. Rispetto a Mad Mad Love l'album è decisamente più conservatore negli arrangiamenti, abbandona gli inserti di elettronica e le cover di facile consumo del precedente e punta tutto su una serie di canzoni autografe molto forti dal punto di vista compositivo, che toccano toni drammatici (First Sin e Into Gravesparlano di Olocausto) come più scanzonati (Open) con egual misurata compostezza. Manca forse quel quid in più a livello di produzione (il polistrumentista Jeff May si tiene sempre sul classico nella scelta degli strumenti) perché la sua musica possa far rumore in mezzo al mare di produzioni simili che assillano le nostre cassette della posta, ma è indubbio che brani come la title-track, Painful Game, l'epico finale di Save Me o il quasi blues di Old Crow sono la dimostrazione di una artista capace e da non perdere di vista.(Nicola Gervasini)
Beating Of The Sun
(Lisa Richards 2012)
folk-songs for the soul
Continua a vivere un po' nelle retrovie Lisa Richards, cantautrice che avevamo scoperto a fine 2006 con l'album Mad Mad Love. Il suo è un mondo un po' a parte, fatto di buoni sentimenti, "musica per l'anima" come ama definirla sul suo sito, dove sviluppa anche un intensa attività di lezioni di canto, songwriting e musica. Folksinger di stampo classico, decisamente simile alla prima Laura Marling per timbro di voce e soluzioni musicali (anche se la Richards può vantare di essere sulla piazza da più tempo), la nostra si ripropone con Beating of The Sun, un disco che davvero consigliamo agli amanti della canzone d'autore femminile. Rispetto a Mad Mad Love l'album è decisamente più conservatore negli arrangiamenti, abbandona gli inserti di elettronica e le cover di facile consumo del precedente e punta tutto su una serie di canzoni autografe molto forti dal punto di vista compositivo, che toccano toni drammatici (First Sin e Into Gravesparlano di Olocausto) come più scanzonati (Open) con egual misurata compostezza. Manca forse quel quid in più a livello di produzione (il polistrumentista Jeff May si tiene sempre sul classico nella scelta degli strumenti) perché la sua musica possa far rumore in mezzo al mare di produzioni simili che assillano le nostre cassette della posta, ma è indubbio che brani come la title-track, Painful Game, l'epico finale di Save Me o il quasi blues di Old Crow sono la dimostrazione di una artista capace e da non perdere di vista.(Nicola Gervasini)
giovedì 16 maggio 2013
ARCHIE ROACH
Archie Roach Into The Bloodstream (Liberation Music 2012) aussie soul |
Non ci eravamo dimenticati di Archie Roach, cantautore australiano di origine aborigena che negli anni novanta confezionò perlomeno tre album molto interessanti. E' solo che dopo Looking for the Butter Boy del 1996 (prodotto da Malcolm Burn), Roach era tornato ad operare nello stretto ambito del suo continente, pubblicando poco (3 album in quindici anni) e senza più clamori. Into The Bloodstream, uscito in patria già alla fine dello scorso anno, sembra giocarsi qualche carta in più e mostrare segni di rivalsa. Non si tratta di un ritorno, quanto piuttosto di una rinascita di un uomo che nel frattempo si è anche fatto un infarto e un cancro al fegato. Album lungo ma con il gran pregio della varietà di stili, presenta sì le classiche lente e ipnotiche ballate per cui lo si era tanto apprezzato (la title track, Mulyawongk,Hush Now Babies), ma anche una serie di divertenti e baldanzosi brani decisamente virati a gospel (Song To Sing, Little By Little, Wash My Soul in the River's Flow) se non proprio verso la soul music (Heal The People, Top of the Hill , I'm On Your Side). Le buone notizie arrivano dal duetto in reggae con Paul Kelly (suo scopritore e produttore dell'esordio Carchoal Lane del 1990) di We Won't Cry e dalla cavalcata blues diBig Black Train, che evidenzia la sua voce decisamente arrocchita. Il punto debole risiede invece in un certo manierismo nelle soluzioni, che rende il disco appetibile solo da cultori del classic-rock non bisognosi di colpi di genio. Per chi cerca solo storie dall'anima invece c'è di che godere. (Nicola Gervasini) www.archieroach.com.au |
lunedì 13 maggio 2013
JJ GREY & MOFRO
JJ Grey & MofroThis River [Alligator 2013] www.jjgrey.com File Under: vorrei la pelle nera di Nicola Gervasini (22/04/2013) |
Di come JJ Grey e i suoi Mofro siano destinati a rimanere una cult-band per appassionati abbiamo già discusso in occasione del devastante live Brighter Days del 2011. Restava però da sciogliere il dubbio su quanto la loro formula, fatta di roots-rock da jam-band post anni novanta e "quintalate" di soul e funky music anni settanta, potesse reggere sulla distanza nei lavori in studio. Dubbio instillato da un disco (Georgia Warhorse del 2010 ) che era parso più stanco, più prevedibile, o semplicemente minore rispetto all'accoppiata Country Ghetto/Orange Blossom che li aveva definitivamente lanciati nei nostri ascolti. Tanto che anche loro si sono presi una bella pausa di tre anni prima di ripartire con un nuovo disco, e la grande vittoria che This River ottiene fin dai primi ascolti è proprio quella di riuscire a confermare come buona una ricetta ormai consolidata, recuperando freschezza e capacità di azzeccare anche grandi brani.
Insomma, il primo grande merito dei JJ Grey & Mofro è stato quello di resistere, di non farsi prendere dalla frenesia di tentare improbabili evoluzioni verso chissà che cosa, di non aver partecipato all'80-revival imperante nel sound di questi ultimi due anni, solamente per trovare nuovi stimoli. Hanno invece proposto la solita minestra, solo che questa volta non sa di brodaglia riscaldata, ma è una leccornia fresca di giornata, fin dalle note mai così black di Your Lady, She's Lady e alle soul ballad Somebody Else e Tame A Wild One. Difficile quindi trovare differenze con il passato, se non forse un ulteriore passo verso la musica nera che li fa abbracciare con convinzione ritmi puramente funky (provate a pensare a Florabama in mano a Prince e capirete), tanto che il ritmo diventa spesso preponderante sulla canzone (Harps & Drums è 99% groove applicato ad un testo ridotto all'osso, come da manuale del maestro James Brown, che un pezzo del genere lo avrebbe tirato anche per venti minuti senza problemi).
Da qui l'utilizzo sempre più invadente della sezione fiati, il non curarsi poi troppo se certe melodie paiono già sentite in qualche disco di Solomon Burke (This River) e l'accento posto sulle lunghe soul-ballad come la splendida Write a Letter che rappresentano poi il punto forte dei loro concerti. Ciò che conta è che un giro strasentito come quello che sorregge Standing On The Edge risulta sempre convincente se ci si mette una gran voce e una band che suona in studio con la stessa verve dimostrata dal vivo (il finale sa di jam a briglia sciolta da chiusura di concerto). Inutile stare troppo a sottilizzare: JJ Grey scrive buone canzoni, canta sempre meglio con il passare del tempo e riesce a mantenere viva la vitalità della sua band: era esattamente questo che chiedevamo a This River. Fare di più non è mai stato compito suo.
Insomma, il primo grande merito dei JJ Grey & Mofro è stato quello di resistere, di non farsi prendere dalla frenesia di tentare improbabili evoluzioni verso chissà che cosa, di non aver partecipato all'80-revival imperante nel sound di questi ultimi due anni, solamente per trovare nuovi stimoli. Hanno invece proposto la solita minestra, solo che questa volta non sa di brodaglia riscaldata, ma è una leccornia fresca di giornata, fin dalle note mai così black di Your Lady, She's Lady e alle soul ballad Somebody Else e Tame A Wild One. Difficile quindi trovare differenze con il passato, se non forse un ulteriore passo verso la musica nera che li fa abbracciare con convinzione ritmi puramente funky (provate a pensare a Florabama in mano a Prince e capirete), tanto che il ritmo diventa spesso preponderante sulla canzone (Harps & Drums è 99% groove applicato ad un testo ridotto all'osso, come da manuale del maestro James Brown, che un pezzo del genere lo avrebbe tirato anche per venti minuti senza problemi).
Da qui l'utilizzo sempre più invadente della sezione fiati, il non curarsi poi troppo se certe melodie paiono già sentite in qualche disco di Solomon Burke (This River) e l'accento posto sulle lunghe soul-ballad come la splendida Write a Letter che rappresentano poi il punto forte dei loro concerti. Ciò che conta è che un giro strasentito come quello che sorregge Standing On The Edge risulta sempre convincente se ci si mette una gran voce e una band che suona in studio con la stessa verve dimostrata dal vivo (il finale sa di jam a briglia sciolta da chiusura di concerto). Inutile stare troppo a sottilizzare: JJ Grey scrive buone canzoni, canta sempre meglio con il passare del tempo e riesce a mantenere viva la vitalità della sua band: era esattamente questo che chiedevamo a This River. Fare di più non è mai stato compito suo.
lunedì 6 maggio 2013
FRIGHTENED RABBIT
FRIGHTENED RABBIT
PEDESTRIAN VERSE
Atlantic
***
Scozzesi e attivi fin dal 2003, i Frightened Rabbit sono una delle realtà
più interessanti del nuovo mondo indie-folk britannico. Dopo due album rimasti
nel sottobosco delle nuove band del genere (Sing
the Greys del 2006 e The Midnight
Organ Fight del 2008), nel 2010 il loro The
Winter of Mixed Drinks ha collezionato buone critiche e soprattutto vendite
al di sopra della media del settore, con posizioni certificate nelle billboards
inglesi e americane. Pedestrian Verse arriva per fare il
colpo finale, forte di un’etichetta tutt’altro che “indie” come l’Atlantic e
una produzione di primo livello che coinvolge anche un veterano delle sale di
registrazione come Tchad Blake. Con
ben in mente il colpo di fortuna capitato ai Lumineers, oggi negli Ipod di
tutto il mondo giovanile grazie ad un azzeccato tormentone folk, l’album si
presta ad una fruizione facile e senza troppi pensieri. In Inghilterra il disco, uscito ai primi di
febbraio, è già in cima alle charts, mentre quello degli Stati Uniti resta un
mercato più lento ad accogliere le novità, ma è evidente che il disco risponde
alle richieste del mercato, sebbene i l primo singolo State Hospital (che aveva anticipato il disco già a fine 2012) non
sembra avere la stessa potenza melodica di una Ho Hey. Meglio il nuovo estratto The Woodpile, sostenuto anche da uno scioccante video con scene di
violenza in un supermercato, e che alle nostre orecchie allenate da ascolti
storici ricorda non poco le atmosfere dei loro connazionali Big Country che
furono negli anni ottanta. Album lungo (i brani arrivano a 15 nella deluxe
edition, si va oltre i cinquanta minuti), ma che pesca a piene mani nella
tradizione della propria terra con la giusta e dovuta devozione, con reminiscenze
che toccano anche classici come Dexy’s Midnight Runner e Waterboys, ma che si
inquadrano comunque nello stile volutamente low-profile delle band indipendenti
odierne. Dove magari ancora mancano è
nella scrittura, forse sempre un po’ ancorata a schemi non loro, anche se
episodi come December’s Traditions e Late March, Death March già volano su
buoni livelli. Disco leggero e immediato ma non per questo da ignorare, Pedestrian
Verse è al pari dei Lumineers un disco che mette d’accordo vecchie e
nuove generazioni, e già non è poco.
Nicola
Gervasini
sabato 4 maggio 2013
DENISON WITMER
DENISON
WITMER
DENISON
WITMER
Asthmatic Kitty Records
***
Nel 1995 il termine “indie” era già in uso, ma generalmente lo si usava per riferirsi alle
etichette che operavano ai margini di una industria discografica che proprio in
quegli anni stava raggiungendo il massimo dello splendore, prima che Napster e
l’era web la facessero a pezzetti. Per gli artisti si preferiva ancora usare il
termine “alternative” di derivazione anni 80. Ma con l’avvento di strani freak
come Will Oldham, Mark Kozelek e tanti altri, il termine parve subito inadatto.
Denison Witmer può ben dire di essere
stato uno dei primi artisti a fregiarsi della dicitura indie-folk: nel 1995 già aveva registrato una cassetta
autoprodotta, mentre il suo esordio vero e proprio arrivò nel 1998, anno in cui
il mondo del nuovo folk alternativo stava ormai diventando di moda. A scoprirlo
fu Don Peris degli Innocence Mission, che con Denison condivide la forte
propensione ai temi spirituali, al limite del christian-rock. Da allora Witmer
ha prodotto sei album senza mai fare il botto, ma sempre raccimolando sinceri
apprezzamenti per la sua semplicità e lotta contro la frenesia dell’effetto
speciale. Il nuovo capitolo, uscito a pochi mesi dal precedente album The Ones Who Wait (mai titolo fu più
indicativo della sua arte), si chiama semplicemente Denison Witmer, e ancora una volta è una raccolta di dieci brani che
rifuggono i ritmi serrati per trincerarsi nel piacere del sussurro e della
riflessione. Insomma, un disco lento nella migliore tradizione
dell’indie-folker solitario e anche un po’ depresso, anche se a ben guardare i
suoi testi rispecchiano un amore per la vita che spesso pare non ricambiato.
L’iniziale Born Without The Words
racconta proprio la sua difficoltà ad esprimersi in toni diciamo “più allegri”,
e gli fa eco la conclusiva Take Yourself
Seriously, sorta di auto-morale finale. In mezzo una serie di brani che
esprimono un songwriting onesto e sincero (su tutti Constant Muse, Asa e Take More Than You Need), tutti basati su
fraseggi acustici con qualche timido intervento di elettrica. Witmer nel genere
non è il migliore, ma nemmeno l’ultimo arrivato, se ogni tanto necessitate di
una pausa di riflessione provate uno dei suoi dischi. Questo ad esempio
potrebbe essere quello buono per farvi venir voglia di conoscere il personaggio,
magari recuperando perlomeno Are You A Dreamer? Del 2005, che resta forse il
suo titolo più acclamato.
Nicola
Gervasini
giovedì 2 maggio 2013
BIG WRECK
BIG
WRECK
ALBATROSS
Anthem/Zoe
***
La storia dei Big
Wreck ha radici lontane, nel 1994, epoca della seconda e ultima ondata di
band filo-grunge non strettamente appartenenti alla scena di Seattle (sono
canadesi infatti). Nel 1997 fecero in tempo a sfruttare gli ultimi scampoli di grandi
vendite del genere facendo del loro esordio In
Loving Memory Of... un doppio disco di platino negli Stati Uniti, forti di
un suono che richiamava i Soundgarden (la voce del leader è davvero simile a
quella di Chris Cornell), ma che spesso e volentieri si concedeva svisate prog, con il risultato di un tour in
coabitazione con i Dream Theatre. Ci
misero troppo tempo a pensare al seguito, e The
Pleasure and the Greed uscì nel 2001 finendo presto nell’anonimato, convincendo
così il leader Ian Thornley a
chiudere l’esperienza per fondare una band che porta il suo stesso nome (che ha
avuto anche buon successo negli anni duemila).
Ma in linea con il vago revival del suono grunge di questi ultimi tempi,
ecco che lo stesso Thornley ha riesumato a sorpresa la sigla, orfano però dei
vecchi compagni Dave Henning e Forrest Williams (evidentemente allergici alle
reunion), ma con un nuovo combo formato
da Brian Doherty, Paolo Neta,
Brad Park e Dave McMillan. I Big Wreck che hanno riunito cocci e ceneri sparse
negli anni per pubblicare Albatross
sono dunque una nuova band, ma il sound sparato nelle casse dalla bella title
track che tanto gli sta portando fortuna, e da altri brani, è puro sound anni
90 rigenerato per i palati delle nuove generazioni. Il gioco però sembra
funzionare, se è vero che il disco è senz’altro preferibile all’ingloriosa
reunion dei Soundgarden dello scorso anno, e ha appena vinto il premio di album
rock dell anno agli Juno Adwards del 2013 (sono i grammy canadesi per la
cronaca) . Il vantaggio di Albatross
è che non tenta proprio di nascondere la sua essenza nostalgica, brani come A Million Days (qui gli echi raggiungono
gli Alice in Chains) o la più roots-oriented Wolves appartengono ad un ‘altra era del rock, e tutto sta alla
vostra voglia di rituffarvi in un suono che con i suoi vent’anni e passa si può
ormai definire vintage. Ai canadesi la voglia evidentemente è venuta subito.
Nicola Gervasini
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