venerdì 27 giugno 2014

STONE JACK JONES

STONE JACK JONES
ANCESTOR
Western Vinyl
*** 1/2

Personaggio oscuro e ammantato anche da un piccolo velo di mistero Stone Jack Jones. La sua biografia affonda le radici in tempi lontani, parla di una vita da musicista ramingo, di una guerra in Vietnam mai combattuta per epilessia e di un lungo albero genealogico composto da antenati minatori, proprio quelli a cui è dedicato Ancestor. E parla di un uomo che cominciato molto tardi a registrare musica dopo una militanza nei Kaos, band dei sotterranei di Atlanta che qualche traccia ha lasciato nella memoria del luogo. Una storia che in qualche modo ricorda quella del compianto Calvin Russell se vogliamo, solo che Stone Jack Jones è vivo e vegeto. Dopo aver già fatto parlare di sé a metà dei 2000 con due album di bizzarro alternative country alla Jim White (Bluefolk e Narcotic Lollipop), eccolo tornare dopo otto anni con un disco decisamente interessante, anche se non di facile ascolto. La presenza dei Lambchop non è casuale e potrebbe servire a capire lo stile: brani di impronta roots, ma sempre molto lenti, sognanti, aperti ad ogni sperimentazione sonora da un produttore abile come Roger Moutenot, artigiano oltre che dei suoi dischi precedenti, anche dei Yo la Tengo, Joseph Arthur e Josh Rouse, e che ha da qualche tempo aperto un attivo studio di registrazione a Nashville. Non c’è da ballare qui: O Child apre il tutto perfettamente in linea con la nebbia della copertina, ma con Jackson (impreziosita dalla voce di Cortney Tidwell, mentre altrove i cori sono affidati alla sua mentore Patty Griffin), già ci addentriamo nel tipico mondo dell’alt-country alla Califone. Un foggy-folk che non lascia tregua con le fangose Black Coal e State I’m In. Solo con Joy le atmosfere si aprono (si fa per dire…) con una folk-ballad tutta acustiche e mandolini (e qualche strano effetto elettronico). Anche Red Red Rose e Way Gone Wrong persistono nell’affondare nell’anima del folk più nero, è il registro non cambia fino alla fine, tra gli alti e bassi di uno slow-core rurale che a volte si dimentica un po’ la canzone (Anyone), a volte la ritrova (Marvellous), ma in genere indulge fin troppo nelle atmosfere dark. Non tutti possono essere i nuovi 16 Horsepower, per dire un nome che certo materiale oscuro lo maneggiavano con più maestria, ma Ancestor è comunque un disco di gran fascino che non scontenterà chi ama le tinte tetre e profonde di un album che è un lungo racconto venuto direttamente dagli inferi di una miniera. A scavare con pazienza ne viene fuori anche tanto oro, questo ve lo assicuriamo.

Nicola Gervasini

mercoledì 25 giugno 2014

NATHANIEL RATELIFF

NATHANIEL RATELIFF
FALLING FASTER THAN YOU CAN RUN
Mod Y Vi Records
***
Con un gioco tipico del mondo indie 2000, il nome dell’artista Nathaniel Rateliff è divenuto quello di una vera propria band, per cui è corretto parlare dei Nathaniel Rateliff. Vengono da Denver, e prima di questo Falling Faster Than You Can Run avevano già pubblicato due album: Desire And Dissolving Men nel 2007 e il già ben accolto In Memory Of Loss nel 2010 (prodotto dal vate dell’ indie-folk Brian Deck, già dietro il mixer degli album di Iron&Wine). Pubblicato in USA già nel 2013 e finalmente distribuito anche in Europa, Falling Faster Than You Can Run è un disco maturo che fa tesoro di anni di quel folk obliquo nato nei sotterranei degli States (e non solo), se è vero che i riferimenti più evidenti possono essere gli Avett Brothers, ma anche Low Anthem, Mumford & Sons, e nei momenti più easy citerei pure i Lumineers. Rateliff è uomo quieto e la sua musica lo segue di conseguenza: la partenza con Still Trying e I Am evita qualsiasi ritmo e offre sofferte ma per nulla piagnucolose interpretazioni di come le nuove generazioni interpretano la tradizione folk. Non più un veicolo per cantare storie della strada, e addio al giornalismo-folk alla Phil Ochs, ma tanto bisogno di raccontare sé stessi nella propria quotidianità, narrare la vacuità della corsa alla modernità (How To Win), e l’inutilità delle nostre azioni (Laborman), rispetto alla grandezza dei piccoli sentimenti (Right On). Lo seguono bene i suoi compari, il chitarrista Joseph Pope III, la bassista Julie Davis, il pianista James Han e il batterista Patrick Meese, musicisti eclettici e capaci, tanto che la band spesso per divertimento si esibisce come cover-band di brani soul. Non tutto funziona alla perfezione: se con Nothing To Show For Rateliff trova la perfetta calibratura tra buona scrittura, interpretazione melodrammatica e interessanti crescendo strumentali, altrove si siede un po’ troppo sulla canzone (Three Fingers In o Forgetting Is Believing), confidando sulla forza emotiva delle sue parole e dando troppo poco libero sfogo ai collaboratori. Manca forse quel pizzico di personalità in più, che rende Falling Faster Than You Can Run comunque un disco che segue un’onda e non la nave che la crea, ma per gli aficionados del nuovo indie-folk quello con il suo album è un appuntamento che consigliamo.

Nicola Gervasini

lunedì 23 giugno 2014

PHIL CODY


 Phil Cody 
Cody Sings Zevon
[
Appaloosa/ IRD 
2014]
philcody.bandcamp.com

 File Under: Things to do in Los Angeles when you're dead

di Nicola Gervasini (12/06/2014)
Che fine ha fatto Phil Cody? Sì, proprio quello che nel 1996 ha prodotto uno dei capolavori del mondo dei nuovi songwriters degli anni 90, quel The Sons of Intemperance Offering che non invecchia affatto con il passare degli anni. Quell'artista vivace e battagliero che, dopo un tentativo troppo tardivo di bissare l'esordio (il comunque discreto Big Slow Mover), è scomparso dalla circolazione, lasciandoci quell'amaro in bocca tipico di chi investe molto su un one-shot-artist. Phil Cody è vivo e vegeto, e pare non abbia smesso di scrivere e registrare musica, anche se continua a ritenere superfluo il fatto di pubblicarla. E rompe il silenzio solo ora con la più inutile e interlocutoria delle operazioni: il cover-record. Tardivo pure questo se vogliamo, visto che qui si omaggia un artista (Warren Zevon) che ci ha lasciati ormai più di dieci anni fa con sufficienti (anche se mai abbastanza) onori da parte dei colleghi.

Ma Cody ha i suoi tempi, e confeziona con gran cura di particolari un tributo monografico che ha comunque spunti interessanti. Registrato a Los Angeles con il produttore Chris Jay (leader degli Army Of Freshmen ma ancora più noto negli USA come opinionista del settimanale VC Reporter), Cody Sings Zevon la butta subito su atmosfere dark e acustiche per sfruttare la profondità della voce di Phil (che col tempo si è fatta più roca). Boom Boom Mancini eSplendid Isolation ad esempio aprono il disco in versione decisamente più rallentata, completamente private dell'elettricità degli originali. L'operazione pare funzionare, ma appena si affronta un classico come Johnny Strikes Up The Band viene subito a mancare qualcosa di fondamentale. Che non è certo la devozione verso il lavoro di Zevon, quanto l'urgenza di riproporlo alle nuove generazioni in una nuova veste che non sappia di vetusto (sarà forse perché le speranze che questo disco arrivi a qualche under 30 sono ridotte al minimo?).

E così gli episodi migliori sono proprio quelli dove qualcosa mancava già all'originale (tipo Mutineer o The Indifference of Heaven), visto che non sempre Zevon ha brillato negli studi di registrazione. Ma quando si affrontano i pezzi grossi, i risultati sono alterni: piace la tragica tensione di Roland The Headless Thompson Gunner, un po' meno il confuso arrangiamento di Play It All Night Long, sta in piedi una Heartache Spoken Here tirata a folk, non una troppo funereaDon't let Us Get Sick. Buon finale con Desperados Under The Eaves, e tutti a casa con la sensazione di aver perso davvero non uno, ma due grandi artisti. Il secondo però non è morto, semplicemente fa di tutto per far finta di esserlo. 

sabato 21 giugno 2014

RODNEY CROWELL


Rodney Crowell 
Tarpaper Sky 
[
New West 
2014]
www.rodneycrowell.com
 File Under: The Houston Kid is back in town

di Nicola Gervasini (02/05/2014)
Non arriviamo a dire che abbiamo temuto di averlo perso, perché il tempo di latitanza è stato poi relativamente breve, ma è vero che Rodney Crowell ci ha fatto un po' preoccupare in questi anni. Nel 2008 gli dedicammo anche una lunga e approfondita monografia in Folklore, e le ragioni c'erano tutte: dopo una vita passata ad essere l'enfant prodige della nuova Nashville, Crowell aveva raggiunto la piena maturità con tre dischi, usciti tra il 2001 e il 2005, che l'avevano visto toccare vette davvero ragguardevoli in termini di cantautorato country. Poi nel 2008 la grande occasione dell'incontro con Joe Henry, un matrimonio sfociato in un album (Sex And Gasoline) che confermava la sua nuova statura, ma sembrava non riuscire ad esprimerne appieno le potenzialità.

Da allora Crowell ha tergiversato: quattro anni di silenzio per poi produrre solo un poco memorabile tributo alla poetessa Mary Karr (Kin), con un dispiego di forze e grandi nomi (Lucinda Williams, Kris Kristofferson e tanti altri) non coerente con gli scarsi risultati raggiunti. Poi lo scorso anno è arrivata l'indecorosa rimpatriata con Emmylou Harris, autori di un album davvero inutilmente "viscido" come Old Yellow Moon. La Harris non è nuova a marchette di questo tipo: i dischi con Linda Ronstadt e Dolly Parton, ma anche l'avventura con Mark Knopfler, erano tutti obblighi contrattuali da professionista scafata, ma almeno non volavano così basso. La Nashville più ingolfata di zuccheri non si è ovviamente accorta della differenza, e ha coperto Crowell di Grammy Awards, ma per noi l'avventura ricomincia solo grazie a questo Tarpaper Sky. Che non sarà il nuovo capolavoro dell'autore, quanto forse solo la giusta partenza della sua dorata vecchiaia (ridendo e scherzando, l'eterno ragazzo del country ha 64 anni), o il disco della raggiunta velocità di crociera se preferite.

Quello che ci piace non è solo il fatto che Crowell è tornato a fare bene quello che meglio sa fare (country-rock d'autore), quanto che il nostro dimostra di essersi liberato da condizionamenti e si è davvero divertito a fare il disco come più gli piace. Le sue classiche ballatone country ci sono , tranquilli, (God I'm Missing YouFamous Last Words of a Fool In LoveGrandma Loved That Old Man), pronte a diventare magari successi per la prossima giovane country-singer della città, ma ci sono anche piacevoli sconfinamenti in altri generi (il rockabilly di Frankie Please, il cajun diFever On The Bayou, il blues Somebody's Shadow, il country-gospel di Jesus Talk To Mama, la border-ballad di I Wouldn't Be Me Without you). Poi il meglio magari arriva quando Crowell fa sul serio con la toccante apertura di The Long Journey Home o nei tributi finali a Guy Clark (The Flyboy & The Kid) e John Denver (Oh What A Beautiful World, con tanto di citazione della famosa Take me Home, Country Roads). Co-prodotto con il tuttofare Steuart Smith, e con qualche ospitata non invadente (Shannon McNally, Will Kimborough, Vince Gill), Tarpaper Sky è un album personale e maturo. L'aveva già fatto forse, ma gli viene ancora bene quando ci si mette d'impegno…

mercoledì 18 giugno 2014

JONO MANSON

E’ ora di conoscerlo Jono Manson, il tipico eroe da dietro le quinte della musica americana. Autore, produttore e session man attivo fin dal 1980, è stato uno degli animatori della scena rock newyorkese dei primi anni novanta (Joan Osborne, Blues Traveller e Spin Doctors tra le sue scoperte eccellenti). Amico e collaboratore storico di Kevin Costner (Jono lo ha spinto a cimentarsi nella carriera di rocker, Kevin lo ha ringraziato immortalando lui e una sua canzone nel suo film The Postman del 1997), e cugino dei fratelli Coen (che non hanno disdegnato di ricorrere ai suoi consigli per la colonna sonora di A proposito di Davis), Jono pubblica un nuovo album di ottimo roots-rock d’autore alla John Hiatt. Angels On The Other Side (Appaloosa/IRD) è dunque l’occasione giusta per scoprire la sua musica, perché è un disco che suggella il lungo rapporto che lo lega all’Italia, sia perché in passato ha prodotto molti artisti nostrani (Mojo Filter, Mandolin Brothers, Stefano Barotti, Paolo Bonfanti), sia perché nel 2010 ha dato vita al supergruppo dei Barnetti Brothers con Massimo Bubola, Andrea Parodi a Massimo Larocca. Ma soprattutto il nuovo album esce per un’etichetta nostrana con tanto di traduzioni dei testi in italiano e una bonus track che si intitola Never Never Land, ma che tutti voi riconoscerete come una riuscita versione inglese di L’isola che non c’è di Edoardo Bennato.

Nicola Gervasini

lunedì 16 giugno 2014

S.CAREY

S.CAREY
RANGE OF LIGHT
Jagjaguwar
**
Appurato che Justin Vernon ha voluto rimarcare come il nome Bon Iver non sia solo un su alter ego artistico, ma una vera e propria band, allora potremmo tranquillamente presentare S.Carey, al secolo Sean Carey, come il batterista dei Bon Iver.  Già titolare di un album nel 2008 (All We Grow) e di un fugace Ep nel 2012 (Hoyas),  Carey prova con questo Range Of Light a capitalizzare il buon responso del mondo indie raccolto dal suo esordio. Peccato però che dal 2008 ad oggi la scena è cambiata, lo stesso progetto Bon Iver ha fatto a tempo nel 2011 a produrre un secondo album che imponeva già un radicale cambio di rotta e di suono rispetto all’acclamatissimo For Emma, Forever Ago, ma lui pare non essersene troppo accorto. Range of Light infatti persevera nel cercare un indie-pop sommesso e d’atmosfera, quasi che il nostro non si sia reso conto che anche compagni di scuderia Jagjaguwas come gli Okkervil River hanno da qualche anno capito che gli anni dieci non sono già più gli anni zero, e che certi estremismi sonori e di non-ritmo prima o poi andavano superati. Invece Range Of Light s’impantana presto tra giri di piano lascivi, vocalizzi armoniosi e suoni vicini all’ambient music. Un peccato, perché il ragazzo sarà pur sempre un emulo del suo principale datore di lavoro, ma ha comunque qualche buon argomento da esprimere. Ci si può farsi avvolgere dalle trame di Glass/Film o Crown The Pines, ma il problema è che, per quanto poi i tempi non siano lunghissimi (36 minuti), l’album non prevede cambi di rotta dopo il promettente inizio. Anzi, con Radiant, la pur intrigante Alpenglow  e la più difficoltosa Fleeting Light si rallenta (se è possibile) ancor più, cercando un mood da dark-band anni ottanta (diciamo alla Dead Can Dance) senza però averne né il fascino, né le grandi intuizione sonore. Il disco si riprende con il bel giro acustica-steel guitar di The Dome, ma Neverending Fountain manca l’occasione del gran finale.  Il più grande difetto di Range Of Light non è quindi tanto nella sostanza, quanto in una forma che appare falsamente moderna, ma è forse quanto di più reazionario si possa fare in pieno 2014.

Nicola Gervasini 

giovedì 12 giugno 2014

ÁSGEIR

ÁSGEIR
IN THE SILENCE
One Little Indian
***1/2
Si ringrazia John Grant (proprio quello di Queen Of Denmark per intenderci) per averci evitato l’incomodo di dover imparare una lingua ostica e spigolosa come l’islandese. Già Bjork ci aveva fatto la grazie di cantare in inglese, ma per convincere il nuovo enfant prodige dell’isola Ásgeir Trausti ad abbandonarla, ci è voluta la sua autorevole intercessione. E, già che c’era, l’ha pure convinto a togliersi il cognome e presentarsi semplicemente come  Ásgeir. In The Silence di fatto è la versione inglese del suo album di debutto Dýrð í Dauðaþögn, disco  del 2013 che fu comprato da ogni singolo islandese probabilmente, ma che anche l’attento mondo indie internazionale non aveva mancato di notare. Grant non ha effettuato nessun intervento sulla parte musicale, conservando le session originali (tutte con musicisti islandesi), e  semplicemente traducendo in inglese brano per brano e riregistrando la voce del padrone di casa. Forse l’originale, nella sua impossibilità di comprensione dei significati, aveva quell’alone di fascinoso mistero che qui si perde, un po’ come se fosse un film doppiato. Solo che a doppiarsi qui è l’attore principale. Ma il disco, sebbene paghi pegno proprio a John Grant nel proporre quel misto di slow-core scandinavo e pop nebbioso, si barcamena perfettamente tra mille effetti elettronici e bellissimi suoni elettro-acustici (il contrasto tra synth, pianoforte e fiati di Going Home ad esempio è davvero suggestivo). Altrove la memoria va forte e chiara agli Shearwater  (che un brano come Head On The Snow lo scriverebbero volentieri). Ásgeir non alza mai la voce, affida in una frase della title-track tutta la sua poetica (Soft and Fragile, There is a Grace in the Dead of  The Silence), ma riesce a non dare mai la sensazione di ripetersi troppo, se è vero che in mezzo a tanti effetti sintetizzati poi ogni tanto affiora una splendida ed eterea ballata come In Harmony (qui magari i Fleet Foxes avrebbero qualche royalties da pretendere, perlomeno per l’ispirazione) o una vera e propria folk-song nuda e secca come On That Day che chiude degnamente un disco sorprendente, dove forse i troppi pegni stilistici da pagare evitano di gridare al new kid in town. Provatelo magari per prepararvi psicologicamente al prossimo autunno.

Nicola Gervasini

lunedì 9 giugno 2014

BAND OF SKULL

BAND OF SKULLS
HYMALAIAN
Electric Blues Recordings
***

O la va, o la spacca si suole dire in questi casi. Nel 2009 gli inglesi Band Of Skulls erano arrivati in ritardo rispetto all’esplosione del fenomeno del nuovo blues-rock degli anni zero, quando gli White Stripes erano ormai storia passata e i Black Keys già in fase calante. Forse è per questo il loro terzo album Hymalaian rappresenta un po’ la prova del nove per capire quanto potranno contare in futuro. Se il precedente Sweet Sour aveva ricevuto consensi non sempre unanimi e una riposta di pubblico un po’ tiepida, è forse anche perché il disco insisteva su soluzioni da trio hard-blues da primi anni settanta, con una ricetta fatta con qualche riff rubato a Jimmy Page e un tocco di pop psichedelico per ingentilire il tutto. Himalayan invece gioca la carta della varietà, magari mettendo tutti tranquilli con i due brani iniziali (Asleep At The Wheel e la title-track), che perseverano nel più tipico stile della band, ma ben presto provando nuove vie stilistiche. Arrivano così il rock and roll (in senso zeppeliniano) di Hoochie Coochie, le melodie pop di Nightmares e della briosa Brothers And Sisters (uno di quei brani che si stampa nelle orecchie al primo ascolto), l’ipnotica psichedelia di Cold Sweat e addirittura un lento da accendino come You Are All That I Am Not. Una prima parte che soddisfa e diverte, ma che lascia sempre una strisciante sensazione di gruppo che gioca a essere qualcun altro, di poca personalità. Sensazione confermata da alcune deragliate nella seconda parte della scaletta. In I Guess I Know You Fairly Well Russell Marsden e Emma Richardson (il trio è completato dal batterista Matt Hayward) esagerano forse a sottolineare la componente pop con qualche coretto di troppo, mentre la spagnoleggiante Toreador appare come una risposta poco convincente alla Conquest che fu degli White Stripes era Icky Thump. Pienamente riuscita invece la tarantiniana Feel Like Ten Men, Nine Dead And One Dying', titolo e testo da commedia dell’assurdo che coglie nel segno. E nel finale c’è pure tempo per una arabeggiante Heaven’s Key e una Get Yourself Together in puro stile da estate dell’amore del 1967. Come dire “proviamole tutte, e qualcosa verrà fuori!” dunque. Eh sì, qualcosa effettivamente c’è. Quello che manca è però una band in grado di dire qualcosa di veramente importante, e forse cominciamo a essere fuori tempo massimo per diventarlo.

Nicola Gervasini

giovedì 5 giugno 2014

AMAZING SNAKEHEADS


The Amazing Snakeheads
Amphetamine Ballads
(Domino/ Self 2014)
 
murder ballads
dominorecord

Pare che gli scozzesi Amazing Snakeheads si siano rifiutati più volte di indicare dei riferimenti precisi della loro musica nelle prime presentazioni del loro disco d'esordio. Forse per darsi un tono da sporchi e bastardi del rock and roll al quale evidentemente ambiscono, o forse davvero perché non c'è n'era bisogno. Basta quel titolo malato del disco (Amphetamine Ballads), bastano le prime note di I'm A Vampire, il giro da blues febbricitante diNighttime, il vagito luciferino di Swamp Song o il talking di Flatlining (con sax in stile Stooges-Funhouse) per risentire i Birthday Party, ma anche i Beasts Of Bourbon (o gli Scientists all'occorrenza), fino anche a certi estremismi di Jon Spencer. Il cantante e chitarrista Dale Barclay cerca evidentemente Nick Cave nelle liriche, che si rivoltano in quel mix di sesso e morte a lui tanto caro (Where is my Knife?), mentre con la voce strilla e incute timore come un qualsiasi urlatore da garage passato nella storia del rock da Iggy Pop in poi. In alcuni casi l'effetto è veramente devastante (come nella pulsante Here It Comes Again), altre volte magari esagera ancora nell'atteggiarsi a personaggio maledetto e il gioco alla fine stanca un po' e diventa prevedibile (Memories), contando che inoltre spesso amano dilungarsi in code scatenate. In ogni caso è indubbio che il trio (completano la line-up William Coombe & Jordon Hutchison) è interessante, pur nel suo totalmente anacronistico immaginario. 
(Nicola Gervasini)

lunedì 2 giugno 2014

ROBBY HECHT


Robby Hecht 
Robby Hecht
(Old Man Henry Records 2014)
 
Amos Lamontagne
www.robbyhecht.com
Ci fa molto piacere che esista ancora un mercato in grado di dare voce ad un nuovo "troubadour" di Nashville come Robby Hecht ("The New American Troubadours" è il titolo del tour promozionale che lo affianca a David Berkeley e Peter Bradley Adams), che poi ci sia posto per tutti nel firmamento della nuova canzone americana è altro discorso invece. Robby Hecht dimostra in questo terzo disco di avere tutto il diritto di partecipare alla festa (si fa per dire…) della canzone country-folk intimista e un po' depressa. Voce alla Amos Lee (somiglianza a volte fin troppo evidente anche nel modo di cantare), strumentazione elettroacustica che fa il verso al Ray Lamontagne più tradizionalista (New York City ricorda proprio un suo brano), e una serie di canzoni che si fanno apprezzare senza troppi entusiasmi. Si segnalano una bella ballata scritta a due mani con Amy Speace (The Sea And The Shore), una soul-ballad con fiati (The Light Is Gone, ma su questo campo Lamontagne avrebbe fatto più faville) o il baldanzoso country di Papa's Down The Road Dead. Hecht ci sa fare anche quando calca la mano sulle atmosfere malinconiche , con una Hard Times che sta dalle parti di Barzin, ma con Barrio MoonStarsCars and Bars finisce anche nell'esagerare con i tempi morti. Tante canzoni discrete in uno stile dove altri normalmente hanno già fatto meglio rendono Robby Hecht un valido emulo per completisti del genere. A voi la scelta se concedergli la chance di competere con i nomi di serie A.
(Nicola Gervasini)

BILL RYDER-JONES

  Bill Ryder-Jones Lechyd Da (Domino 2024) File Under:   Welsh Sound I Coral sono da più di vent’anni   una di quelle band che tutti...