lunedì 27 ottobre 2014

DAVIDE VAN DE SFROOS

Incontrare Davide Van De Sfroos ad un incrocio tra Como e San Antonio in Texas non è cosa che accade tutti i giorni, ma ben venga l’occasione del Buscadero Day, festival estivo di musica americana ispirato dal noto mensile che si terrà nella bella cornice lacustre di Pusiano – Como – tra il 26 e il 29 Luglio. Rassegna coronata con il concerto finale che vedrà il cantautore comasco dividere il palco con il grande Steve Earle. Ho tutti i suoi dischi, e glieli porterò per spiegargli perché salgo sul palco con lui – assicura Davide, restituendoci anche l’immagine mitica del personaggio Earle. E’ uno di quegli artisti che anche se sale sul palco da solo sembra comunque di sentire suonare i Clash. E questo perché lui ha la convinzione di dover sempre cantare quello che gli altri non cantano. Nel caso di Earle questo si è tradotto in una carriera nata tardivamente a Nashville, nel paradiso dell’America conservatrice, ma presto deviata da una esperienza in prigione e dalla convinzione che la musica roots americana dovesse andare in ben altra direzione. Un pensiero che Davide Van De Sfroos condivide da sempre attraverso una galleria di personaggi, veri o di fantasia, che nelle sue canzoni hanno descritto il mondo italiano in modo molto “americano”. Mi sento un cantante-cronista come Earle e tutta la tradizione che da Woody Guthrie in poi ha raccontato la strada e i suoi protagonisti. Solo che io non vado sulle highways impolverate della provincia americana, ma giro le valli nostrane, da solo, anche facendo concerti di beneficenza negli ospizi e coinvolgendo la gente negli ospedali. E’ questo il mio ideale di artista.  E così se Earle si è fatto cantore dell’”altra America”, Van De Sfroos nelle sue canzoni ha descritto l’Italia delle persone semplici. Gente che ha una vita avventurosa, che necessita di un approccio punk per affrontare le tasse, gli sfratti, la disoccupazione. I punk di casa nostra non hanno giacche borchiate e capelli colorati, ma sono i pendolari, gli operai, i pescatori, i contrabbandieri e i minatori…gente che prova, magari sbaglia, ma riparte sempre.  Tante storie che lui ha raccontato spesso ricorrendo a miti americani, sia trasformando i pendolari in Cau Boi in una canzone che, non a caso, ha dato anche il nome al suo fan-club, sia ricordando i pomeriggi passati a sognare nei cinema di provincia, fantasticando sulle imprese dell’Ispettore Callaghan o sull’erotismo della Jessica Lange sdraiata “sul taul de cusena” (Cinema Ambra, ottimo brano del suo ultimo disco Goga e Magoga). Lui ammette di sognare che la sua scrittura decisamente cinematografica possa un giorno trovare un sfogo sul grande schermo. Un giorno parlavo con un amico regista di un eventuale film che sia una carrellata di tutti i miei personaggi. Qualcosa di simile a quello che fatto Ermanno Olmi per il Po, ma portato sulle rive del Lago di Como. Che è un luogo estremamente adatto per il cinema, tanto che qui sono stati girati molti film famosi (da Rocco e i suoi Fratelli a Casino Royale, persino scene dell’episodio 2 di Star Wars). In attesa di vedere il suo sogno realizzato, resta la sua musica, uno dei pochi casi di produzione italiana perfettamente in grado di ricreare suoni e modo di suonare tipici della musica delle radici statunitensi, mantenendo però l’impronta di casa nostra. Penso che molti miei fans abbiano scoperto un mondo musicale per molti lontano grazie ai miei dischi e alle mie citazioni, e anche grazie ai tanti artisti che ho invitato sul palco.
Nicola Gervasini


venerdì 24 ottobre 2014

JOE HENRY

Non si esagera mai troppo nel definire Joe Henry come una delle figure chiave della musica americana degli ultimi vent’anni. Nato cantautore di matrice roots/country (da riscoprire perlomeno gli album Shuffletown e Short Man’s Room), Henry è divenuto nel tempo uno dei creatori di suoni (per sé e per altri artisti) più originali e riconoscibili dello scenario americano. Personaggio schivo e poco animale da palcoscenico, i suoi album hanno sempre raccolto grandi consensi di critica ma piccoli riconoscimenti di pubblico. Pochi infatti magari sanno che da un brano tratto dal suo capolavoro Scar del 2001 (Stop)  sua cognata Madonna ha ricavato uno dei suoi maggiori successi (Don’t tell Me), e che la stra-nota e suadente Goodnight Moon degli Shivaree era una sua intuizione da produttore. Invisible Hour (ANTI) nasce dall’esigenza di ritrovare il folksinger che fu, abbandonando le pericolose deviazioni di maniera nel mondo jazz delle ultime produzioni, e tornando a concentrare gli sforzi sul semplice binomio words & music. Statene lontani se cercate ritmo o arrangiamenti innovativi, anche perché, dopo una partenza davvero straordinaria con Sparrow e Grave Angels,  l’album ha comunque  i suoi passaggi a vuoto. Il sound è scarno ma curato, così voluto per fare da ossatura al lungo tour acustico (Italia ovviamente esclusa) che gli servirà a fare il bilancio di una carriera senza macchie.

Nicola Gervasini

mercoledì 22 ottobre 2014

FELICE BROTHERS


 The Felice Brothers
Favorite Waitress 
[
Dualtone 
2014]
www.thefelicebrothers.com
 File Under: new traditionalists

di Nicola Gervasini (01/07/2014)
Facciamo finta che non sia successo niente dal 2009 ad oggi, e che Favorite Waitress sia l'atteso seguito di Yonder Is The Clock. Potremmo così parlare della continuità di una band che ci aveva davvero fatto sperare che si potesse coniugare l'appeal indie con la tradizione roots, magari con una sostanza in termini di songwriting un po' meno vacua di band di maggior successo come Low Anthem e Mumford & Sons. Ma non si può poi ignorare come i Felice Brothers abbiano ormai perso il momento buono per diventare un gruppo di prima linea, a causa di un disco decisamente sbagliato (Celebration, Florida), di troppi litigi interni che hanno rischiato di far finire la loro storia, e di una serie di inutili uscite only for fans che hanno solo alimentato la confusione (i Mix Tapes del 2010 e le registrazioni casalinghe di God Bless You, Amigo del 2012). Per cui Favorite Waitress diventa il nostro disco del mese perché vogliamo festeggiare il ritorno a casa di una sigla che continuiamo a considerare importante, ma è evidente che la rivoluzione non passa più su queste frequenze.

L'album ha la particolarità di essere il primo disco della band inciso in un vero e proprio studio di registrazione, conservando però il tentativo di ricreare fittiziamente l'idea di una suonata casalinga, tra cani che abbiano e voci in sottofondo. Ormai basati sul duo Ian e James Felice, con il batterista Simone definitivamente partito per avventure personali (con successo, vista la qualità dei suoi dischi anche recenti), i Felice Brothers si avvalgono di tre strumentisti capaci come Greg Farley, Josh Rawson e David Estabrook per un disco che è una vera e propria reazione stizzita alle fallimentari aperture all'elettronica del precedente Celebration, Florida.Bird On A Broken Wing, il sensazionale brano che apre la raccolta, è una dichiarazione d'intenti, una ballata vecchio stampo da Band relegata nella cantine di Big Pink, con tanto di dedica a Pete Seeger per non sbagliarsi sull'epoca di riferimento. Cherry Licorice invece porta un clima di festa, ma resta una festa di provincia, lontana dai salotti alto-culturali di città, dove questi Felice Brothers verranno probabilmente schifati come si disdegna il bifolco che viene a vendere l'insalata al mercato della domenica.

Favorite Waitress è tradizionalista anche nella copertina, a cui manca giusto una cherry pie per fare il pieno di immaginario da "America Old Style". Perso il coraggio di osare che era di Simone Felice, Ian e James assaltano il pubblico rimasto sintonizzato sulle loro onde con un disco che è ancora più conservatore di quelli dei Black Crowes di fine anni zero, e che non prova neanche più a fare finta di poter essere di moda. Possono così concentrarsi a scrivere un pugno di buone ballate folk (Meadow Of A DreamChinatown), infarcendole magari di quegli arrangiamenti un po' storti a cui ci hanno sempre abituati (i cori ubriachi di Lion e Saturday Night, l'orgia di organi, campane e violini di Constituents) e di qualche nuova variazione sul tema (il giro hard-blues di Woman Next Door). Non tutto gira come dovrebbe (Katie Cruel davvero non si comprende), e il clima rilassato - per non dire a volte fin troppo volutamente scazzato - alla fine lascia un senso di provvisorietà al progetto, ma è forse anche il suo fascino. O, perlomeno, resta affascinante per noi, che a questi ritmi blandi e suoni da "rocking chair on porch" ci siamo più che abituati.

lunedì 20 ottobre 2014

LOUDON WAINWRIGHT III


 Loudon Wainwright III
Haven't Got the Blues (Yet)
[
Proper/ IRD 
2014]
www.lw3.com

 File Under: This is not a Blues Record

di Nicola Gervasini (28/07/2014)
Impossibile non amare Loudon Wainwright III, nel bene e nel male di una discografia ormai sconfinata (questo è il ventiseiesimo album) che non ha sempre tenuto lo stesso livello eccelso. In particolare lui è uno che ha sempre avuto bisogno di trovare un alter-ego musicale di primissimo livello per esprimersi al meglio, se è vero che i dischi migliori della sua carriera sono quelli prodotti da Richard Thompson (va citato perlomeno More Love Songs del 1986) e, in tempi più recenti, da Joe Henry (l'imperdibile Strange Weirdos del 2007). Perché lui, uomo da sempre dotato di una penna magnifica ma di una vocalità abbastanza monotona e impersonale, del lato produttivo non si è mai troppo curato, e questo lo ha portato a volte a realizzare dischi ottimi solo dal punto di vista della scrittura.

Ultimamente poi si era un po' perso in una sorta di percorso personale nella tradizione e nei ricordi di famiglia, appagante in termini di interesse storico e riconciliazioni con figure paterne (e soddisfacente anche in termini di vendite, se è vero che negli States di recente i dischi più conservatori e folk-oriented stanno ottenendo più favori del solito), ma decisamente poco accattivanti per un pubblico musicalmente esigente. Facile che il titolo Haven`t Got The Blues (Yet)possa far credere ad un disco a tema, ma stiamo parlando di una delle penne più ironiche del firmamento roots, e quel (yet) del titolo dovrebbe subito mettere in guardia dal pensare che davvero il nostro si dia completamente alla musica del Delta, quando invece dietro la burla del titolo si cela un disco stilisticamente vario e frizzante. Ancor più meritevole, se vogliamo, perché stavolta in produzione non c'è nessuna personalità ingombrante, ma solo l'amico David Mansfield che si limita a mettere le cose a posto laddove la canzone lo richiede.

Il blues c'è, e forse più del solito, nascosto nello swing d'apertura di Brand New Dance e nelle vene di una Depression Blues da applausi o di altri numeri old style (The Morgue Spaced) caratterizzati da fiati (se ne occupa Steve Elson) e fisarmoniche. I brani sono quattordici e la freschezza compositiva non è magari più quella dei giorni migliori, per cui normale che ci sia qualche passaggio non proprio necessario come Harmless o qualche momento in cui si lavora di mestiere (Harlan County, I'll Be killing You This Xmas). Ma alla fine chi ama Loudon Wainwright III può riconoscere tutta la grandezza di scrivere una brano come In A Hurry, quadro umano per voce e chitarra con quel perfetto equilibro tra il romantico e l'ironico che solo John Prine al mondo sa ottenere meglio di lui. Tra alti (la divertente title-track) e bassi (God And Nature) il disco scorre comunque bene fino alla fine. Resta una autore che richiede una buona comprensione dell'inglese per essere apprezzato appieno, ma anche chi è ancora alla "Lesson One" qui ha da divertirsi.

venerdì 17 ottobre 2014

HARRY DEAN STANTON

How would you describe yourself? chiede un divertito David Lynch. As Nothing. As a No-self gli risponde Harry Dean Stanton. Non traduciamo per non perdere il gioco di parole di uno dei tanti dialoghi che animavano Partly Fiction, il documentario biografico che nel 2012 ha consacrato a futura memoria l’ancora vivo e vegeto ottantottenne Stanton. Un non-protagonista che ha attraversato il cinema in più di 250 pellicole, di cui forse solo Paris, Texas da vero primo attore. E, anche in quel caso, era comunque un ruolo silente, quel Travis che Wim Wenders pensò incapace di commentare la fine del suo matrimonio se non camminando nel deserto. E chi meglio di un attore che Sam Shepard definisce come “uno che sa che il suo viso è la storia” poteva incarnare quella afona malinconia? Ma se parliamo ancora oggi del film della regista svizzera Sophie Huber non è tanto per riconsigliare l’agiografia di un attore che si è auto-condannato alla carriera di caratterista, quanto perché la pellicola è divenuta un tale cult tra gli appassionati, da richiedere a gran voce la pubblicazione in un cd ufficiale della colonna sonora. Già, perché il buon Harry nel film conversa con Lynch, Wenders, Shepard, Debbie Harry e Kris Kristofferson inframezzando i ricordi con alcune personali interpretazioni dei brani che gli sono più cari. Nulla che un qualsiasi appassionato di musica americana non abbia già in più versioni, pezzi come Everybody’s Talkin’ di Fred Neil, la struggente Blue Bayou di Roy Orbison, Promised Land di Chuck Berry, l’immancabile Help Me Make It Through The Night  di Kristofferson e una nuova versione di quella Canción Mixteca che già Stanton cantava in Paris,Texas. Il problema è che, nonostante l’impegno del chitarrista Jamie James che lo accompagna, e del produttore Don Was che interviene ad aggiustare il tiro, messe su disco le sue versioni non riescono ad andare oltre la semplice testimonianza di un uomo che non ha mai usato troppo la voce per comunicare, e si sente. Partly Fiction (Omnivore Recordings)  è già un cult-record ancora prima di uscire, ma lo consigliamo solo se siete dei veri adepti. Proprio perché le cose migliori Stanton le ha dette stando in silenzio.

Nicola Gervasini

mercoledì 15 ottobre 2014

STING

Era il 1984: la storia dei Police si era chiusa bene con un disco vendutissimo come Synchronicity e con il singolo di una vita (Every Breath You Take), e Sting pareva a tutti l’uomo giusto al momento giusto. E lui, con il suo stile elegante e affettato, unito a quel tocco di vago e freddo intellettualismo da salotto buono, azzeccò le mosse giuste fin dalle sue prime uscite discografiche da solista, seguendo la nuova onda dello smooth-pop virato a jazz. Un verbo già portato avanti dagli Style Council (e più avanti da Sade, Working Week, Simply Red, e tanti altri), ma che lui rese tendenza con la buona idea di non far suonare jazz a musicisti pop, ma costringere al pop dei veri musicisti jazz. The Dream Of The Blue Turtles (1984), il live Bring On The Night (1985) e Nothing Like The Sun (1986) dettano ancora legge in tal senso, e rappresentano lo zenith della sua carriera. In quei dischi riuscì a calibrare bene il tono ironico di Englishman in New York e quello serioso di Russians e They Dance Alone, offrendo anche momenti di grande musica. Ripetersi non era facile, tanto che, per non sbagliare, decise di prendersi una lunga pausa. Tornò cinque anni più tardi con due dischi ancora validi come The Soul Cages (1991) e Ten Summoner's Tales (1993), dove il successo stava nel mantenere un buon livello pur adottando un suono pop un po’ piatto e addomesticato, senza più l’anima nera dei predecessori. Anche se i suoi dischi non hanno mai smesso di vendere molto, da allora Sting ha avuto sempre difficoltà a ridare un senso alla sua musica, con album senza troppa anima come Mercury Falling (1996, anche se la muder ballad I Hung My Head piacerà molto a Johnny Cash), Brand New Day (1999) e il disastroso Sacred Love (2003). La sua storia pop finisce qui per ora: gli ultimi dieci anni lo hanno visto diviso tra progetti di musica classica (Songs from the Labyrinth del 2006, Symphonicities del 2010), celtica (If on a Winter's Night... del 2009) e un musical (il recente The Last Ship), che lo confermano ormai lontano da un idea di autorialità pop in cui, per almeno i primi quindici anni di carriera, è stato indiscusso maestro.


lunedì 13 ottobre 2014

LEE FIELDS


 Lee Fields 
Emma Jean[Truth And Soul Records  2014]

leefieldsandtheexpressions.com

 File Under: new old soul
di Nicola Gervasini (30/06/2014)
Tra i tanti eroi del rinnovato mondo del soul, Lee Fields è sicuramente uno dei più miracolati. Lui è sulla piazza fin dal 1973, ma fino agli anni 2000 non era mai riuscito ad arrivare ad un significativo successo, con pochi dischi persi nella notte dei tempi (da ritrovare Let's Talk It Over del 1979 ). Prodotti che pochi avrebbero ricordato se Sharon Jones non l'avesse riesumato coinvolgendolo in un memorabile duetto presente nell'album Naturally del 2005. Da allora Lee Fields ha trovato la forza di diventare un nome di punta del new-soul, raffinando molto il suo stile (un tempo fin troppo legato allo schema-James Brown), e arrivando nel 2009 a pubblicare il suo disco più importante (My World).

Emma Jean, album che segue il comunque valido Faithful Man del 2012, arriva quando forse il soul-revival è giunto un po' ad un punto morto, con la stessa Sharon Jones che ormai non può altro che riproporre lo stesso sound (si veda il recente Give the People What They Want), e le nuove leve che stanno fallendo a portare nuove idee, se non qualche piccola variazione sul tema (come gli elementi rock alla Kravitz sentiti da Curtis Harding nel comunque notevole Soul Power). Emma Jean quindi non regala sorprese, ma ribadisce conferme, con un Fields sempre più portato alla smooth-ballad (Just Can't Win) e con sempre meno ritmo funky nel motore (ci prova, senza troppo riuscirci, in Standing By Your Side). Fields è uno che ha tanta di quella gavetta sulle spalle che potete andare sul sicuro che se deve affrontare una soul-ballad alla Otis Redding come Eye To Eye sa benissimo come fare a strapparvi una lacrima, così come sa dare la giusta energia agli innesti di blues dell'ottima In The Woods.

Ma per il resto anche lui viaggia in un déjà vu non sempre brillante (Paralyzed), o che paga troppi debiti (Bobby Womack - recentemnte scomparso - che dirà da lassù risentendosi in Stone Angel?), in cui spesso il soul-sound di stampo classico sovrasta la canzone (It Stills Gets Me Down). Se comunque volete approcciare il personaggio per la prima volta c'è in ogni caso di che rimanerne soddisfatti, magari per la bella cover (quasi countreggiante) di Magnolia di JJ Cale, o per il teso groove di Talk To Somebody e il bel gioco di fiati e percussioni dello strumentale All I Need (utile per far sfogare i suoi Expressions). Il New Soul era già vecchio nelle intenzioni quando è nato a metà degli anni 2000, figuratevi ora che lo sta diventando veramente, anche quando resta pur sempre un bel sentire come in questo caso.


giovedì 9 ottobre 2014

HOYEM


 Höyem
Endless Love 
[
Hektor Grammofon/ Audioglobe 
2014]
www.siverthoyem.com

 File Under: 90s in Norway

di Nicola Gervasini (26/09/2014)
Cercare di proporre anche i nomi più interessanti dell'immenso sottobosco discografico mondiale fa parte della missione, se non proprio del DNA, del nostro sito, ma, credeteci o no, il compito è sempre più arduo, vista la vastità di materiale in cui dobbiamo pescare. Anche perché poi capita che a volte le cose più interessanti arrivino da dove meno te lo aspetti, magari dalla Norvegia, dove Sivert Hoyem è ormai una sorta di leggenda del rock alternativo locale. Prima a capo dei mitici Madrugada (da ricercare il loro Industrial Silence del 1999), band che ha avuto anche i suoi momenti di notorietà in Europa (soprattutto in Inghilterra), e da qualche anno con una carriera solista che merita una riscoperta.

Partendo magari da Endless Love, quinto album della sua carriera solista che fa tesoro di mille influenze antiche e moderne. Intanto quello che impressiona parecchio è la pienezza del suono (produce Ulf Rockis Ivarsson, già produttore di Nicolai Dunger): ascoltate la gospel-like Handsome Savior e riassaporate un muro di suono fatto di cori, organi hammond e chitarre decisamente anni 90 che si intuisce nato non pensando ad una riproduzione su pc o smartphone, ma su uno stereo come si comanda. E poi c'è la qualità dei brani: sia che si tocchino le corde tragiche di un certo indie scandinavo (Inner Vision) o che si viaggi anche su corde più mainstream (la title track potrebbe essere un brano dei Live più ispirati di metà anni novanta), Hoyem fa sentire tutta la sua esperienza ventennale sia nella penna che nella costruzione di melodie in grado di prendere al primo colpo.

Niente ritornelli facili comunque, ma tanti brani di forte impatto emotivo: Hoyem non si inventa nulla ma riutilizza tutto l'ABC del rock anni novanta alla perfezione, sia quando usa un tocco leggero (l'acustica Free As A Bird/Chained To The Sky), sia quando va sul melodrammatico (Little Angel) o quando lascia le chitarre a briglia sciolta nella murder ballad Wat Tyler (che pare un brano dei Willard Grant Conspiracy). Endless Love è quindi un piccolo trattato su dove è andata la musica indipendente negli ultimi vent'anni, compreso una splendida e tesissima Gorlitzer Park che nei toni potrebbe tranquillamente appartenere a Bill Callahan. Disco dedicato alla leggenda della musica norvegese Eirik Johansen, scomparso pochi mesi fa, Endless Love pur essendo nato tra Oslo e Stoccolma con artisti locali, ha un respiro internazionale decisamente forte che è giusto non perdere di vista.

lunedì 6 ottobre 2014

WEST MY FRIEND


 West My Friend
When The Ink Dries
[
Grammar Fight Record 
2014]
www.westmyfriend.com

 File Under: Cascadian third-wave indie progressive chamber folk-roots

di Nicola Gervasini (12/09/2014)
C'è sempre da divertirsi quando gli uffici stampa partoriscono strane definizioni musicali per vendere come nuovo ciò che nuovo non è. Ad esempio per presentarci i West My Friend e il loro secondo album When The Ink Dries (l'esordio era del 2011 con l'album Place) i valorosi creativi dell'ufficio marketing ci sparano una definizione omnicomprensiva come "Cascadian third-wave indie progressive chamber folk-roots". Cerchiamo di capire se poi tante parole sono davvero necessarie: la Cascadia è una macroregione dell'America occidentale (Seatlle ne è la città più importante), ma già citarla per identificare la provenienza di un gruppo pare alquanto insolito (ma costringerà parecchia gente a farsi una nuova cultura geo-politica almeno). Third-Wave Indie invece spaventa un po', più che altro perché ci sarebbe da discutere su quali sarebbero le prime due onde (azzardo: i pionieri anni 90 la prima, il grande movimento di indie-folker degli anni zero la seconda, i prodi West My friend farebbero dunque parte della terza). Cosa poi debba oggi definire la parola "indie" è altra discussione che tralascerei (direi che è più un attitudine piuttosto che un suono ormai).

Progressive è invece qui da intendersi più nell'accezione di "sperimentale", forse perché questo quartetto di voci e chitarre capitanato dalla eterea Eden Oliver molto si rifà a certe contaminazioni psichedeliche della Incredible String Band. Chamber lo hanno appiccicato per identificare la natura completamente acustica del gruppo, fa scena più che sostanza, ma ci sta. Con Folk-roots poi si dice tutto e niente. Il folk qui è sia quello americano dei monti Appalachi, sia quello britannico di stampo classico. E così, invece di spendere tante parole e una sfilza di nomi a paragone (si sparano Joanna Newsom, Decemberists, Avett Brothers, Milk Carton Kids, Beirut e tanti altri, tutti più o meno azzeccati nel non essere poi troppo lontano, ma neanche così vicino alla musica di questo When The Ink Dries), forse il percorso storico che porta a questi deliziosi schizzi folk parte dai Pentangle, passa per le misconosciute ma importanti esperienze dei Mirò e degli Shelleyan Orphan di fine anni ottanta, e approda magari agli Espers degli anni 2000 (grave dimenticanza questa, caro ufficio stampa …), in tutti i casi con molto più gusto pop (assaggiate l'arrangiamento della lunga e complessa The Cat Lady Song, roba che pare pensata da un Lee Hazlewood in missione per Nancy Sinatra), e molti meno azzardi contaminatori e avanguardistici.

Ai quattro infatti piace la leggerezza, persino quando affrontano pezzi più riflessivi come Ode To Silvia Plath o Thin Hope. Ottimamente prodotto dall'esperto Joby Baker (produttore anche delle Nomad Series dei Cowboy Junkies), il disco offre una serie di graziosi e soffici bozzetti con dei testi anche poetici (Lady Doubt) e fantasiosi (The Tattoo That Loved Her Anyway), mentre i comprimari Alex Rempel, Jeff Poynter e Adam Bailey si fanno notare per i bei intrecci tra basso, mandolino e fisarmonica (My LoverLast Call). Consigliato solo ai cuori gentili e a chi surfeggia sulla terza onda indie, qualsiasi cosa vorrà mai dire.

sabato 4 ottobre 2014

JENNY LEWIS


 Jenny Lewis 
The Voyager 
[
Warner 
2014]
www.jennylewis.com

 File Under: pop girl

di Nicola Gervasini (03/09/2014)
In agosto la frizzante Jenny Lewis è apparsa a sorpresa in uno dei concerti di Beck per lanciarsi con lui in una baldanzosissima Do Ya Think I'm Sexy? di Rod Stewart. Basterebbe ascoltare quella performance per leggere correttamente The Voyager, il suo terzo album solista: se infatti Beck è apparso decisamente spaesato nel calarsi nella divertente cialtronaggine del brano che consacrò Stewart come una delle più abili "puttane" del rock-system, lei si è trovata subito a suo agio nel ritmo come nelle mossette giuste. The Voyager segue con notevole ritardo gli acclamati (e anche da noi consigliati) Rabbit Fur Coat del 2006 e Acid Tongue del 2008, belle prove di elaborato country-rock al femminile. Nel frattempo lei aveva trovato solo il tempo di un album a due mani con il fidanzato Jonathan Rice (I'm Having Fun Now del 2010), per cui è presumibile che la gestazione di questa nuova fatica sia stata lunga e laboriosa.

E si sente: il disco è curato al limite dalla over-production nientemeno che da Ryan Adams, tra l'altro aiutato (sempre nientemeno che) da Beck e dallo stesso Rice. Team di serie A, ma risultato che si barcamena a metà classifica purtroppo. La sensazione è che l'occasione sarà persa solo per noi, che forse preferivamo certe spigolature nelle melodie e le chitarre meno garbate sentite nei suo lavori precedenti, mentre qui la partenza con Head Underwater e She's Not Me lambisce le rive di un pop radiofonico che in molti troveranno più che piacevole. Lo fa più che degnamente in ogni caso, ma il senso di leggerezza che pervade The Voyager ha spesso più il sapore del vacuo che della spensieratezza. Anche perché i testi non sono certo quelli da teen-pop, anzi continuano comunque a parlare senza mezzi termini dei suoi trascorsi con la droga, della sua infanzia e di amori ben poco felici (Slippery SlopesThe New You), ma nell'insieme manca all'appello il brano energico e graffiante.

Non latitano comunque i momenti di gran livello, soprattutto quando si passa nella splendida Late Bloomer (qui il tocco di Adams è evidente) o si viaggia in zona-Stevie Nicks con Just One Of The Guys (il singolo prodotto dal solo Beck), o anche quando il pop viene sondato nella sua espressione migliore con una convincente You Can't Outrun'Em che sarebbe piaciuta al Tom Petty dell'era Full Moon Fever. Insomma, magari i colleghi di Pitchfork provocano un po' sentendoci rimandi alle Go-Go's, ma davvero ascoltando una perfetta radio-song come Aloha & The Three Johns non andiamo poi troppo lontano. Adams dimostra di avere sensibilità melodica (ma questo lo sapevamo), ma come produttore sceglie sempre la via più semplice e prevedibile, e non pare avere il magic touch di un Ethan Johns, per dirne uno a lui molto caro. The Voyager segue la svolta easy di altre artiste come Grace Potter o Sarah Borges, e forse lo fa decisamente meglio, ma gli album che lasciano segni profondi sono altri.

mercoledì 1 ottobre 2014

RICHARD THOMPSON

Richard Thompson 
Acoustic Classics 
[
Proper records 
2014]
www.richardthompson-music.com

 File Under: guitar maestro

di Nicola Gervasini (21/07/2014)
Si dirà che a fare un bel disco con queste canzoni son bravi tutti, si dirà che Richard Thompson è uno che non ha ancora avuto vistosi cali di ispirazione, che da quarant'anni praticamente non sbaglia un colpo, e che forse non avrebbe neanche bisogno di concedersi una pausa per un disco autocelebrativo come Acoustic Classics. E si dirà che un disco acustico non è mai sulla carta un qualcosa che attira troppo, soprattutto da parte di un artista che ha fatto dell'elettrizzazione di un mondo tradizionale la propria bandiera. Ma Richard Thompson spiega che se ha preso i quattordici brani forse più noti del suo songbook e li ha rifatti in solitaria non è perché aveva bisogno di una nuova dispensa delle sue lezioni di chitarra, ma perché sentiva che questi brani necessitavano di una rilettura scarna ed essenziale che suonasse attuale, e che l'ormai vecchio Small Town Romance del 1984 era diventato inadatto a rendere bene l'idea di un suo concerto acustico.

Acoustic Classics serve dunque a preparare il pubblico ai suoi tanti concerti da one-man-band, visto che girare il mondo con la band ormai ha costi proibitivi per tutti, oppure semplicemente Richard ha pensato di movimentare un già previsto appuntamento con un greatest hits (che di hit non si tratta, visto che lui le classifiche di vendita le ha sempre viste da lontano). Perché poi Acoustic Classics, con il suo pregio di pescare da produzione vecchia e nuova, è un piccolo viaggio nelle sue canzoni più importanti, con classici riconosciuti come Dimming Of the DayWalking On A Wire I Want To See The Bright Lights Tonight e splendidi capolavori della sua era matura come Beeswing o I Misunderstood (forse il suo unico brano ad aver provato a diventare anche un singolo da classifica nel 1991, con produzione levigata e radio-friendly, e elegante video per Mtv).

Il risultato è di livello superiore, inutile quasi dirlo, l'uomo resta un maestro in grado di tenere alta la tensione anche senza orpelli in sede di arrangiamento, per cui la garanzia di qualità è scontata. Resta un prodotto che mira a due categorie di ascoltatori ben precise: da una parte i fans e completisti, che certo non potranno vivere senza una nuova versione di Shoot out The Lights (e che versione!), dall'altra magari qualche neofita (ma ne esistono ancora?) che voglia una piccola introduzione al personaggio. Certo, manca la sua fedele Fender Stratocaster azzurrina, e non è poco, ma per quella la sua discografia offre talmente tanti titoli di livello che, anche pescando a caso, si cade bene. Qui non è tanto il disco ad essere imprescindibile, quanto proprio l'artista nel suo complesso.

BILL RYDER-JONES

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