martedì 19 luglio 2016

DIRK HAMILTON

Dirk Hamilton 
Touch and Go
[Acoustic Rock/ IRD 2016
]
www.dirkhamilton.com
 File Under: beautiful losers are still alive
di Nicola Gervasini (28/06/2016)
Facciamo un discorso un po' scomodo: ci siamo mai chiesti "noi che ascoltiamo quelli che nessuno ascolta" se poi sia davvero solo un ingiustizia che gente come Willie Nile, Steve Forbert o Elliott Murphy (giusto per citare "losers" noti a tutti i nostri fedeli lettori) abbiano dovuto faticare per portare avanti le proprie carriere, vissute all'ombra del mondo discografico che conta (ma un'occasione per tutti c'è comunque stata)? Era davvero tutto oro che cola nel fango di un ingiusto oblio? Prendiamo il caso Dirk Hamilton: esordi su major, primi album bene, con cura negli arrangiamenti, "pensati". I suoi primi 4 album restano da avere, non si discute. Ma poi? L'apartheid discografico degli anni 80, la salvezza trovata in Italia grazie a Franco Ratti e la sua Appaloosa Records, e un ripresa discografica che fino ad oggi forse solo con l'ottimo Sufferupachuckle del 1996 ha veramente ritrovato lo smalto e la brillantezza dei primi anni.

Colpa solo del fatto che è stato dimenticato ed emarginato dunque se i suoi dischi hanno sempre lamentato grosse pecche produttive ed evidenti cali di ispirazione? In fondo, a ben vedere, a lui una nuova Billboard on the Moon non è più uscita. O non è forse vero che Hamilton, come anche i suoi colleghi, si sia un po' arreso all'evidenza di una grande carriera naufragata sul nascere, contando però sul suo piccolo ma duraturo zoccolo di fans ai quali basta anche solo il fatto che si faccia vivo, per sentirsi parte di una setta carbonara per pochi adepti. Sono proprio loro i primi a non richiedergli nuovi slanci creativi, ad accontentarsi sempre in nome dell'epica della resistenza del Loser contro i cattivoni dell'industria discografica. Arriviamo dunque a Touch and Go: la bella notizia per i fans è che si tratta senza dubbio del suo miglior disco da 20 anni a questa parte, appunto da quel Sufferupachuckle di cui pare fin da subito l'ideale seguito per suoni, stile e tipo di canzoni.

La brutta notizia è nella frase precedente: Hamilton si è solo impegnato di più in fase realizzativa, ha selezionato bene le canzoni, ma non c'è ancora nulla qui che possa cambiare la sua storia, né tanto meno rilanciarlo. Ma, quel che è peggio, neppur incuriosire troppo le nuove generazioni di cantautori e i loro pochi giovani seguaci. Quello che sentiamo è ancora quel suo essere un po' un Van Morrison più ironico e stralunato, che mischia folk, soul e ogni tanto qualche ritmo caraibico. Mix vecchio, ma sempre godibile quando serve a tirar fuori pezzi come Head On The Neck o ballate soulful come la title-track, o quando finalmente si risente la sua penna ritrovare la vena satirica che più gli era congeniale (Build A Submarine).

Prodotto praticamente in presa diretta, live in studio da Rob Laufer (artista solista più conosciuto come chitarrista per Fiona Apple, Frank Black e versione recente dei Cheap Trick), Touch and Go è un disco che merita attenzione brano per brano (non ne abbiamo lo spazio qui ora…), e lo si può salutare anche come un gradito ritorno alla forma. Ma contate che sto sempre rivolgendomi solo a voi che già del buon vecchio Dirk conoscete vita e miracoli.

mercoledì 13 luglio 2016

RONNIE SPECTOR

Ronnie Spector 
English Heart
[Caroline/ Universal 2016
]
www.ronniespector.com
 File Under: Be My Popsinger

di Nicola Gervasini (02/06/2016)
Non deve essere stato facile per Ronnie Spector diventare un'icona del pop e un simbolo di un'era, senza che poi davvero qualcuno abbia mai creduto nel suo talento. Veronica Yvette Bennett deve il suo mito ad una serie di fortunati singoli con le Ronettes (Be My Baby e Baby I Love You i più celebri), e al fatto di essere poi diventata Ronnie Spector quando ha sposato il deus ex machina di tanto successo, il tumultuoso produttore Phil Spector. La loro storia fa gara con quella tra Ike e Tina Turner per numero di soprusi e vessazioni, ma mentre Tina ha comunque saputo gestire il suo talento anche da sola, Ronnie si è persa un po' nel nulla. L'unico tentativo di darle una propria carriera strutturata è stato l'album Siren del 1980, per il quale le assemblarono una band in linea con i tempi composta da membri dei Mink Deville, degli Heartbreakers di Johnny Thunders e dei Dead Boys, e nel quale affrontava anche un brano dei Ramones a ringraziamento per aver rimandato in classifica una nuova versione della sua Baby I Love You (Joey Ramone produrrà poi un suo EP del 1999).

Da allora solo tre album, quasi sempre improntati ad un revival esclusivamente dedicato ai nostalgici. Esattamente quello che fa anche questo English Heart, piccolo bigino di pop britannico degli anni 60, in cui Ronnie canta ancora alla grande con la sua voce inconfondibile, e la produzione trova un discreto compromesso tra suoni vintage e gusto moderno. Dove però, ancora una volta, la Spector conferma di essere interprete poco capace di rigenerarsi, intenta come la troviamo ad affrontare brani che avrebbe cantato anche 50 anni fa allo stesso modo. L'operazione ricorda molto quella di Bettye LaVette del 2010 (Interpretations: The British Rock Songbook), e lo spunto d'interesse nella scelta dei brani arriva dalla versione al femminile di un brano minorissimo e dimenticato dei primi Rolling Stones (I'd Much Rather Be With the Girls, firmata nel 1964 dal solo Keith Richards con il produttore Andrew Loog Oldham proprio per darla a Ronnie, che però non la registrò). E' qui il senso di molte scelte, cioè far rivivere brani meno noti di grandi nomi: dal catalogo Beatles ad esempio pesca e I'll Follow The Sun, scritta da Paul McCartney a sedici anni, e pubblicata come riempitivo di BeatlesFOR SALE, mentre Because è una b-side dei Dave Clark Five.

Quando va su terreni più celebri, lo fa a volte con arrangiamenti coraggiosi (Tired Of Waiting dei Kinks), con grande trasporto e sentimento (l'ottima versione di How Can You Mend A Broken Heart dei Bee Gees) o con semplice rispetto (Don't Let The Sun Catch You Crying dei Gerry And The Pacemakers). Per il resto la scaletta prevede anche Girl Don't Come di Sandie Shaw, You've Got Your Troubles dei Fortunes, Tell Her No dal primo album degli Zombies, Don't let me Be Misunderstood degli Animals e Oh Me Oh My (I'm A Fool For You Baby)di Lulu. Godibile e ben fatto, quanto assolutamente inutile e ricattatorio: provateci voi a dire che non vi piace senza incappare in peccato di vilipendio verso tutto ciò che ha plasmato la canzone pop che più amate.

BILL RYDER-JONES

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